mercoledì 5 marzo 2008

QUANDO LA NAVE AFFONDA...

Questa lettera è apparsa sul bollettino della comunità ebraica di Trieste, ma i temi sono comuni a tutto l'ebraismo italiano: l'assimilazione sta decimando le comunità e la colpa sembra sempre essere del rabbino troppo 'severo'.

Ma non sarà invece che l'ebraismo laico ha fatto il suo corso?


Pubblicato su: Morasha'/Kolot, Jarchon, JewishLife

Non è mia abitudine intromettermi in beghe comunitarie, ma alcuni recenti interventi su Iarchon (e su molta stampa ebraica italiana) nonché la gravità del momento, mi impongono di farlo.

Concordo con chi scrive sul fatto che l'ebraismo italiano, e in particolare le piccole comunità, stiano passando un periodo critico. L'assimilazione è un problema gravissimo che sta decimando piccole e grandi comunità. Quando a Trieste sette ragazzi/e della mia età su dieci contraggono matrimonio misto (così mi raccontano), bisogna certamente fare qualcosa se si vuole che la comunità, nella quale sono nato e cresciuto così come i miei genitori zl e nonni zl, sopravviva.

Ma mi trovo in totale disaccordo sulla 'terapia' proposta. Anziché fare autocritica, domandarsi perchè sia successo un fatto così eclatante e fare qualcosa per impedirlo, i vari opinionisti considerano l'assimilazione, rimanendo in metafora medica, come un'epidemia che si diffonde senza che noi possiamo farci nulla. E così, per far numero, si propone di includere, chi come iscritti alla comunità, chi addirittura come ebrei a tutti gli effetti, coniugi non ebrei e figli di madre non ebrea.

Ai miei tempi la scuola ebraica era frequentata nella quasi totalità da figli di entrambi genitori ebrei e il matrimonio misto era considerato un comportamento socialmente 'deviante'. Eppure, fatto senza precedenti storici, sette ragazzi su dieci, una volta giunti in età adulta contraggono matrimonio misto. Mi domando: se alla scuola ebraica, al tempio e alle varie funzioni ebraiche si presentano oggi dieci bambini di cui sette figli di matrimoni misti (in una scuola che comunque già da qualche anno accoglie non ebrei), in un sistema in cui il matrimonio misto è la norma (e i matrimoni ebraici l'eccezione) e a casa si sentono due campane, come può essere che il sistema che non ha funzionato nemmeno per i genitori, una volta annacquato, possa funzionare per i figli? Si crede veramente di poter offrire così un futuro ebraico alla comunità? È realistico pensare che il giovane figlio di padre ebreo (e madre non ebrea) deciderà di convertirsi all'ebraismo?

Non è forse un ulteriore incentivo per chi ebreo è a contrarre matrimonio misto? Per essere chiari, si sta curando il rene malato o si sta danneggiando anche quello sano e così facendo anziché migliorare la qualità di vita del paziente, la vita gliela si sta togliendo?

Non si può negare che i fattori 'esterni' compiano un ruolo e che la cultura del mondo circostante, i piccoli numeri, la disaffezione con le istituzioni e così via conducano 'naturalmente' in questa direzione, ma il problema secondo me è ben altro. I triestini della mia generazione sono tutti cresciuti con un ebraismo, che fatta eccezione per qualche accenno di osservanza, è in tutto e per tutto laico.

Tralasciando anche le fondamentali considerazioni filosofiche, teologiche o di altra natura, di cui ho già ampiamente scritto su queste colonne, non si può negare il dato di fatto che l'ebraismo laico diasporico non sia stato e non sia in grado di riprodursi in una nuova generazione ebraica. Trovo incredibile che persone dotate di cultura ed intelligenza non affrontino questo problema e non riconoscano l'innegabile sterilità intergenerazionale dell'ebraismo laico.

E apparentemente noncuranti del mondo che si sgretola attorno a loro procedano imperterriti proponendo l'estrema laicizzazione dell'ebraismo ovvero la sua scomparsa nella cultura prevalente con la quale si identifica. Non sarà forse che il messaggio trasmesso ai figli è così tanto laico e così poco ebraico che fa scomparire la differenza tra chi è ebreo e chi non lo è? Non potrebbe essere che l'ebraismo laico diasporico abbia fatto il suo corso e sia una reliquia del passato?

La legge ebraica, da quando ci è stata data sul monte Sinai è molto chiara riguardo a chi sia ebreo e nonostante sia portatrice di valori ben precisi include anche abbondanti margini di flessibilità. Esiste una condizione ottimale in cui entrambi i genitori sono ebrei osservanti, ma l'halachà considera ebrei a tutti gli effetti non solo i figli di genitori ebrei che osservanti non sono, ma anche, ex-post, i figli di sola madre ebrea. Inoltre, qualora il coniuge non ebreo dimostri un minimo interesse a far parte del popolo d'Israele e a voler educare i propri figli ebraicamente, l'halachà, pur non facendo proselitismo, ne favorisce la conversione. È aperta quindi la porta a rimanere all'interno dell'ebraismo, ex-post, anche a famiglie di uomini ebrei che abbiano sposato donne non ebree. Perchè i coniugi in questione, ebrei e non ebrei, non considerano questa opzione? Non sarebbe utile anche al coniuge ebreo riprendere l'educazione ebraica spesso interrotta alla fine della quinta elementare o il giorno del suo bar o bat mizvà ?

La discendenza patrilineare non è accettata dall'halachà. Compito del rabbino è quello di applicare la legge ebraica e non ha invece autorità di compiere innovazioni in tal senso. Figli di solo padre ebreo, e forse anche la comunità intera, non sarebbero riconosciuti come ebrei già al di là di Barcola (ma anche dagli ebrei di Trieste che vogliano rimanere tali) e sarebbero quindi delle specie di paria a livello locale, nazionale ed internazionale. Ma soprattutto chiedere al rabbino di cambiare le regole, che come spiegato sopra includono già ampi gradi di flessibilità, è chiedergli di non fare più il rabbino!

Rimane un'ulteriore confusione di fondo tra essere ebrei e essere iscritti alla comunità. Se l'ebraismo è solo avere il proprio nome su una lista di sedicenti ebrei e si esprime con una visita tre volte all'anno a qualche attività della comunità, ma non riconosce la religione ebraica, l'halachà e l'autorità del rabbino, perchè allora non essere coerenti fino in fondo? Perchè anziché cercare di trascinare con sè l'autentico ebraismo attraverso la fondamentalissima revisione di chi sia ebreo (anche attraverso la soluzione di facciata di includere i non ebrei come membri della comunità) non ci si stacca da esso e non si fonda un circolo culturale in cui si discute di shoah, cinema, musica, ricette e letteratura ebraica, si raccolgono soldi per Israele e quantaltro? Un circolo, che senza pretese di essere ebraico, sia aperto a tutti gli amici d'Israele, ebrei, figli di ebrei, nipoti di ebrei e non ebrei che siano.

In fin dei conti secondo la definizione laica non ci sono differenze tra essere ebreo e non esserlo: non ci sono differenze di comportamento (stessi vestiti, stesso cibo, stessa squadra di calcio per cui si fa il tifo), non ci sono differenze di principi morali (stessa credenza nella centralità dell'uomo e nella ragione umana come unica fonte di verità e paragone), non ci sono differenze sui valori da infondere ai figli (essere brave persone e comportarsi da buoni cittadini). Rimane forse solo l'antisemitismo a ricordar loro di essere ebrei, non proprio un 'valore positivo' per cui rimanere ebrei!

Vorrei qui cercare di correggere un importante errore logico che tante incomprensioni ha creato. La classica spiegazione sul perchè l'ebraismo si trasmette per linea matrilineare e non patrilineare è che la madre, regina della casa, svolge un ruolo primario nell'educazione dei figli. Al giorno d'oggi però la differenza nella società tra il ruolo del padre e della madre è molto più sfumata rispetto al passato. Da qui l'apparentemente legittima richiesta.

Ma se l'insieme delle mizvot ha un signficato ben chiaro (suggerisco a tal riguardo di studiare con un maestro competente il primo capitolo del libro Messilat Yesharim di Rav Moshe Chaim Luzzatto) la singola mizvà, il comandamento o regola ebraica, ha come unica e vera spiegazione e significato il fatto che è Ha-Kadosh Baruchu' (D-o) a comandarcela. Certo che ci sforziamo di capirle per dare significato alle nostre azioni e così cresciamo nel loro compimento, ma le ragioni che noi diamo devono essere prese per quello che sono. E qualora la ragione non sia più valida non vuol dire certo che il comandamento non abbia più ragione d'essere, ma vuol dire che è necessario fornire un'altra spiegazione al passo coi tempi e le sensibilità individuali. Leggendo gli innumerevoli commenti agli antichissimi testi biblici, talmudici e halachici è possibile trovare spiegazioni attualissime e ben più profonde di quelle date alle scuole elementari.

Ovviamente dal punto di visto laico, accettare anche solo la possibilità che esista una verità assoluta e non relativa è vera e propria eresia. Ma non è forse dimostrazione di chiusura mentale 'a priori', ovvero una posizione estremamente dogmatica? In fin dei conti la mentalità scientifica dovrebbe considerare tutte le possibilità, ovvero anche quelle che esista un Creatore che si è rivelato nella Torà e ha eletto il popolo ebraico per una ben precisa missione.

Si capisce quindi che l'ebreo osservante, e quello che ci tiene all'unità e continuità del suo popolo, non può accettare compromessi nelle regole che equivarrebbe ad intraprendere un processo di laicizzazione della Torà e quindi una negazione di se stesso e del proprio popolo. Fino alla generazione scorsa anche l'ebraismo non osservante riconosceva la legittimità di una tale posizione e riconosceva che l'unità e continuità dell'ebraismo non potevano prescindervi (anche il laicissimo Ben Gurion capì che per non creare due popoli era necessario che il nascente stato d'Israele riconoscesse l'autorità rabbinica come l'unica in grado di stabilire chi è ebreo).

Attenzione poi all''italianissima' soluzione della via di mezzo nella quale si dovrebbero incontrare tutte le diverse anime dell'ebraismo. Si tratta di una felice simbiosi tra tradizione e modernità o è forse una posizione incerta di chi non sa o non vuole scegliere? Che strada prendere quando i valori cozzano?

In questo contesto viene spesso erroneamente citato il Rambam (Maimonide) il quale indica la via di mezzo come equilibrio dei tratti caratteriali dell'individuo (per esempio nè troppo parsimonioso, nè spendaccione ecc.) e non certo come compromesso nell'osservanza delle mizvot. Ha dedicato la sua vita allo studio del Talmud e alla codificazione dell'halachà al punto che di lui si dice 'da Moshè (Rabbenu) a Moshè (Maimonide) non c'è stato nessun altro Moshè'. Non nego che abbia esercitato la medicina in tarda età, ma solo per necessità economiche. Si è anche occupato di filosofia, ma non perchè la considerasse un contraltare alla Torà, ma per avere un linguaggio con cui dialogare con chi dalla Torà si era allontanato (non certo quindi una novità) e riavvicinarlo. Mettere in bocca al Maimonide, per generazioni, parole non sue ha solo creato una confusione di valori.

Quando la nave affonda si può scegliere di ridipingere le pareti, far suonare l'orchestra e continuare a ballare illudendosi che vada tutto bene. Ma forse è meglio prendere un megafono ed esortare ciurma e passeggeri a saltare sulla scialuppa di salvataggio.

In un precedente articolo ho già portato l'esempio della comunità di Gibilterra, la quale, simile per cultura e numeri alla nostra, resasi conto una ventina d'anni orsono che l'assimilazione ne minacciava l'esistenza, ha deciso di fare scelte drastiche che hanno azzerato nel vero senso della parola l'assimilazione. Come? Non certo spostando i paletti! Ma ritornando allo studio e all'osservanza della Torà. Non da un giorno all'altro, ma intraprendendo, con decisione congiunta della comunità, un ben preciso cammino. E i frutti si sono raccolti in meno di una generazione. Perchè questa opzione non è nemmeno presa in considerazione? Non è solo una bella idea. È già stato fatto! (Vedi qui)

Il primo contatto tra Avraham Avinu e D-o, paradigma dell'inizio di un qualsiasi percorso religioso individuale, si è avuto con il comandamento di lech-lechà ('vai per il tuo bene'). Più che un abbandono fisico dei luoghi nativi è un'esortazione, appunto per il bene dell'individuo, ad uscire da schemi mentali ed abitudini di vita. A livello collettivo, nel mezzo della schiavitù egiziana, la preghiera del neo-nato popolo d'Israele era esclusivamente di rendere più tollerabile la sofferenza, ma mai e poi mai avrebbero potuto, in quelle anguste condizioni mentali, sperare nella serie infinita di miracoli tra i quali l'uscita dall'Egitto, l'apertura del mar Rosso, la rivelazione della Torà dal monte Sinai cui quella generazione assistette. E nemmeno il ruolo unico che il popolo d'Israele ha compiuto e continua a compiere da tre millenni a questa parte in ogni angolo della terra. Eppure così è stato.

Il Midrash Rabbà su Shir HaShirim dice (mia libera traduzione): Ha-Kadosh Baruch-u (D-o) raccomanda a Israele 'aprimi anche una solo spiraglio di teshuvà (ritorno a D-o) anche se grande solo come la cruna dell'ago e aprirò per te porte così grandi da far passare carri e cammeli'.

In altre parole sta a noi fare il primo passo... nella giusta direzione.

Michele Cogoi

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