mercoledì 18 aprile 2007

LA COMUNITA' EBRAICA DI GIBILTERRA

Partendo da una situazione culturalmente, storicamente e numericamente simile ad una media comunità italiana, Gibilterra anzichè scegliere la sterile e mediocre strada dell’ebraismo laico e degli eterni compromessi, dimostra che è possibile far rivivere l’ebraismo in una comunità intera. Quale miglior esempio per l'Italia?

Pubblicato su: Jarchon, JewishLife

Lasciamo l'hotel kasher le-Pesach di Marbella e percorriamo in autobus la strada costiera. Lussuosi hotel moderni si alternano a ville andaluse, colori mediterranei e moreschi si intrecciano lungo bianche spiagge sabbiose. Dopo un breve viaggio giungiamo alla meta della nostra gita di chol-ha-moed (i giorni intermedi di Pesach): “Bienvenidos a Gibraltar”.

Oasi di tranquillità, la famosa rocca del protettorato britannico si erge imponente sulla punta meridionale della penisola iberica. Uno stretto braccio di mare ci separa dall'Africa e le coste del Marocco si scorgono nitide all'orizzonte. Il nome deriva probabilmente dall'arabo Gib al-Tariq, la “rocca di Tariq”, il quale condusse l'incursione dei mori nel 711. Unico passaggio tra l'Atlantico e il Mediterraneo è un pezzo di terra di fondamentale importanza strategica.

A pochi chilometri da qui per cinquecento anni raggiunsero il loro massimo splendore, fino all'espulsione, le comunità ebraiche di Cordova, Malaga, Granada, Siviglia e Lucena. Personalità quali Rambam (Maimonide), Shmuel Ha-Naggid, Shlomo Ibn Gabirol, Rif (Rav Yitzchak Alfassi), Moshe Ibn Ezra, Ri Migash, Ravad, Ritva, Abudraham e molti altri studiosi della Torà vissero in queste comunità andaluse. Le loro interpretazioni talmudiche e decisioni di halachà sono i testi di riferimento studiati al giorno d'oggi nelle yeshivot di tutto il mondo

Sir Joshua Hassan, morto dieci anni fa, fu per due volte Primo Ministro di Gibilterra. Incontriamo suo nipote Chaim Levy, presidente della comunità ebraica, ebreo ortodosso e titolare di uno studio legale che impiega oltre 60 avvocati. Con voce commossa ci racconta di suo zio, “un saggio ebreo che chiese ed ottenne l'indipendenza del suo paese dall'Inghilterra. Fu ammirato e rispettato da ebrei e non ebrei al punto che l'intera nazione partecipò al suo funerale”.

Entriamo nel Bet Ha-Kenesset Tefuzot, costruito nel 1799 con una donazione della comunità ebraica portoghese di Amsterdam. Ci attende suo fratello Shlomo che ci racconta un po' di storia. I primi ebrei che si stabilirono a Gibilterra furono i discendenti degli ebrei che, cacciati dalla Spagna, erano emigrati in Inghilterra. Quando la Gran Bretagna ricevette Gibilterra dalla Spagna nel 1713, il trattato di Utrecht stabiliva che nè ebrei nè mori potevano stabilirvisi. Gli inglesi ignorarono la clausola e furono ben lieti di vendere proprietà immobiliari agli ebrei. Durante l'assedio del 1781 decine di ebrei perirono sotto il fuoco spagnolo e la sinagoga fu bruciata, ma la comunità rifiorì nel diciannovesimo secolo. Durante la seconda guerra mondiale, per non incrinare i rapporti con la Spagna, i tedeschi non entrarono a Gibilterra e la comunità rimase pertanto illesa. Potè così crescere dal punto di vista economico: si contano oggi gioiellieri, banchieri, uomini d'affari, negozianti, avvocati e contabili.

Ci spostiamo al Bet Ha-Kenesset Shaar Ha-Shamaim, che con i suoi 280 anni è la più antica sinagoga di Gibilterra. Alternandosi con la precedente ospita le funzioni giornaliere. Le altre due sinagoghe, Etz Chaim e Abudraham, sono aperte solo a Shabat. Ci attende Rav Ron Hassid, Rabbino Capo di Gibilterra.

Nato in Israele e cresciuto in Inghilterra, ci racconta che quando giunse a Gibilterra 22 anni fa, vi era solo una scuola elementare frequentata da 90 alunni. La comunità rischiava di scomparire dato l'esiguo numero dei suoi membri (circa 600) e la crescente assimilazione. Si decise allora di investire nella cultura ebraica creando

Rav Hassid suggerì che anzichè mandare i ragazzi in kibbutz, venissero mandati a studiare nelle yeshivot di Israele o Inghilterra. Successivamente, con l'aiuto della comunità e di alcune organizzazioni internazionali, venne istituito un kollel (istituto superiore di studi rabbinici) i cui membri offrono numerosi shiurim (lezioni) alla comunità: per uomini, donne, ragazzi e bambini. Numerosi oratori internazionali sono invitati regolarmente.

Oggi la comunità conta circa 250 famiglie, tutte rigorosamente osservanti. Lo Shabat e le norme di zniùt (modestia nel vestire e nel comportamento) sono rispettati in modo esemplare e a Succot vengono acquistati centinaia di arba minim (lulav e etrog). Vi è un solo ristorante kasher, ma per matrimoni e bar-mizvà viene affittato (e kasherato) un hotel. E così la piaga dell'assimilazione, che fino ad una ventina d'anni fa costituiva il problema principale della comunità, è completamente scomparsa.

Un membro della comunità ci confida con lacrime di gioia agli occhi: ”A Gibilterra solo l'ebraismo è più alto della rocca e solo la Torà è più forte.” In un recente incontro, il presidente di Gibilterra, Caruana, ha dichiarato: “Sono orgoglioso del coinvolgimento della comunità ebraica nella creazione e sviluppo di Gibilterra. Siamo buoni vicini e nutriamo un enorme rispetto reciproco”. Insomma, ebraismo autentico, niente assimilazione e totale assenza di antisemitismo.

Si fa ora di pranzo. Con i nostri pranzi al sacco saliamo la rocca sulla cui cima ammiriamo da lontano il piccolo cimitero ebraico, pulito e ben tenuto, in cui sono sepelliti diversi Ghedole' Israel (Grandi Rabbini). Non fanno a tempo ad avvisarci di non portare fuori cibo che... una scimmia acchiappa una mazà dal mio sacco e se la mangia gustosamente. Gli inglesi le proteggono religiosamente: “secondo la leggenda, finchè le scimmie risiederanno sulla rocca, la Gran Bretagna regnerà su Gibilterra”. Alla fine della seconda guerra, dato che il numero era sceso a tre esemplari, Churchill decise di importarne dal Marocco. Dalla cima della rocca si vedono decine di navi attraversare lo stretto, molte delle quali faranno rifornimento a Gibilterra, creando un importante introito.

Scendiamo dalla rocca e rientriamo all'hotel prima di sera. Lungo il tragitto mi affiorano alla mente i famosi versi della Torà la cui previsione si è avverata qui a Gibilterra: “Voi che rimaneste attaccati al S-gnore vostro D-o siete ancor oggi tutti vivi [ ]. Vi ho insegnato statuti e leggi [ ], li osserverete ed attuerete scrupolosamente perchè ciò dimostrerà la vostra sapienza e saggezza agli occhi dei popoli che [ ] diranno: questa grande nazione è certamente un popolo saggio e intelligente [ ] e farai conoscere queste cose ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli” (Deut 4: 4-9).

Ecco una comunità ebraicamente viva, fiera della propria religione e proprio per il fatto di non scendere a compromessi nello studio ed osservanza, viene rispettata dal paese che li ospita.

Il paragone con l'Italia è scontato. Partendo da una situazione culturalmente, storicamente e numericamente simile a comunità come Firenze, Trieste, Bologna, Livorno, Venezia o Torino, la comunità di Gibilterra anzichè scegliere la sterile e mediocre strada dell'ebraismo laico (contraddizione in termini!) e degli eterni compromessi, dimostra che è possibile far rivivere l'ebraismo in una comunità intera.

Questione di volontà, uomini giusti e scelte corrette. Ma soprattutto apertura mentale, investimenti sull'educazione ebraica (quella vera) e determinazione ad osservare la Torà. Non certo facile, ma possibile dato che l'aiuto di D-o è garantito nero su bianco dalla Torà. E Gibilterra ne è la prova vivente.

Perchè non farlo anche in Italia?

P.S. Rav Hassid e Chaim Levy sono lieti di dividere la loro esperienza con Rabbini e dirigenti comunitari che vogliano farlo. Contattateci pure per avere il loro numeri.

Michele Cogoi

1 commento:

  1. Interessante la storia degli ebrei in Gibilterra,al di la' di fondamentalismo e nm laicismo !!!Alcuni di essi,emigrarono in Libia.

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