Un articolo apparso su IL PICCOLO, il quotidiano di Trieste, in occasione dell'insediamento del nuovo rabbino capo. Il noto giornalista (anche di Repubblica) ed intellettuale Paolo Rumiz, non ebreo, riconosce che per rilanciare la città c'è bisogno di una comunità ebraica forte. E perchè la comunità sia forte propone di aprire una scuola talmudica...
Pubblicato su: Morshà / Kolot
Se fossi il governatore di questa regione o il sindaco del suo capoluogo, dopo l'attentato alla scuola talmudica di Gerusalemme, commetterei un atto di sana follia. Proporrei alla comunità ebraica il co-finanziamento di un'analoga scuola a Trieste. Lo dico oggi che nella sinagoga della città si insedia ufficialmente il nuovo rabbino, alla presenza della massima autorità religiosa d'Israele. Cerimonia aperta, ore 11.30, cui tutta la popolazione è invitata a partecipare.
Dopo la strage in Israele, un simile insediamento avrebbe una forza simbolica enorme. A Trieste e non altrove Mussolini ha proclamato le leggi razziali. A Trieste quelle leggi ebbero il loro collaudo infame contro la comunità slovena, ritenuta stirpe inferiore. A Trieste hanno funzionato i forni crematori, e a Trieste dei collaborazionisti hanno dato alla Gestapo i nomi della gente da deportare. Ma alla radice dell'idea non vi è solo il senso di colpa. Se così fosse sarebbe poca cosa. Vi è anche un motivo di interesse. Questo: Trieste ha disperatamente bisogno di una comunità ebraica forte. Basta leggere la storia della città. Gli ebrei sono stati i protagonisti del boom negli anni d'oro tra fine Ottocento e l'inizio della Grande Guerra. Hanno segnato un'epoca nel campo delle assicurazioni, della musica, della scienza, delle banche e della psicoanalisi. Scommettere nuovamente su di loro significa credere in una rinascita della città.
Perché una scuola talmudica? Se l'alfabetizzazione, la capacità di lettura, è stata da sempre la marcia in più del più antico popolo del Libro, la scuola di lettura - detta «yeshivà» - ne è il nucleo fondante. Non esiste nulla di simile e di così libero nel mondo cristiano. Conosco una sola parola che gli si avvicina: il turco «Divan», luogo dove ci si siede per conversare di cose importanti. Il Talmud non è la Bibbia (Torà), ma una mirabile e millenaria raccolta di interpretazioni attorno al testo sacro. E' lì che si impara a spaccare il capello in quattro, a fare a fette il pensiero. E' lì che si celebra non l'adorazione del dogma (che per gli ebrei non esiste) ma l'illimitato diritto dell'uomo a interpretare la Scrittura. È lì che l'ebreo impara che, quando tutti stanno su una riva del fiume, lui deve stare dall'altra. È da quel tronco antico, come dalla cabbala dei numeri, che nasce l'arguzia e la cultura di un popolo.
È probabile che agli stessi ebrei triestini l'idea di una scuola talmudica possa sembrare folle o provocatoria. Gli anni grandi sono finiti. Trieste e i suoi ebrei sono entrati in crisi insieme. La prima ha perso la sua centralità. I secondi si sono ritrovati senza massa critica, a rischio di cancellazione dopo i disastri del ghetto, dell'assimilazione e della Shoà. Oggi la comunità è debole, e di conseguenza chiusa nel suo riccio. Non avrebbe da sola la forza di mettere in piedi una simile università del pensiero. Oggi gli ebrei di Trieste hanno ben altre gatte da pelare. Una modernità dissacrante che ha perso il senso della Parola, l'appartenenza a un'Italia papalina dove i Vescovi s'impicciano di tutto, la marginalità del porto, la crisi demografica della comunità, i matrimoni misti, le scuole sempre più vuote di bambini cresciuti nell'ortodossia.
Gli ebrei rischiano l'assimilazione e contano infinitamente di meno, anche sul piano intellettuale. La loro presenza nel potere è diminuita, i mezzi a disposizione non sono gli stessi, e questo da solo non sarebbe importante. Il problema è che anche la potenza di fuoco sul piano intellettuale è diminuita, non solo rispetto a cent'anni fa, ma a cinquanta. Non sono più i tempi in cui un Bobi Bazlen, a guerra finita, poteva farsi cardine del rilancio della casa editrice Einaudi e contemporaneamente fondare il catalogo della Adelphi. Ma se questo è vero, non è proprio questa crisi il motivo per lanciare la scommessa che si diceva? Una Yeshivà riattiverebbe il circuito, attirerebbe come una calamita su Trieste gli ebrei veri, quelli che al loro interno osservano scrupolosamente la Legge, ma all'esterno hanno per massimo comandamento la gioia e ringrazierebbero ogni minuto il Creatore per tutto ciò che li circonda: il mare, la bora, il Carso, la lettura e gli affari, le architetture asburgiche, il malvasia con i sardoni impanati. In una parola: la vita.
Un anno fa a Gerusalemme un raffinatissimo ebreo osservante nato a Trieste, rav Mordechai Goldstein, masticando con gioia il suo dialetto nativo durante la rumorosa festa del Purim, mi esaltò come nessun altro la magia del luogo dove avevo la fortuna di vivere. «Quando un triestino – disse con occhi sognanti – sta seduto in riva al mare con un buon calice di vino in mano, e si gode il tramonto, ebbene quella è preghiera, suprema e grandissima preghiera, e il Signore dell'Universo gode a vedere quella letizia». Esiste niente di più meravigliosamente laico? Eppure quell'uomo era un osservante, si era sfiancato nella lettura del Talmud, la sua religiosità era per me come una nebulosa magnifica e inavvicinabile, ogni suo atto splendeva di spontanea obbedienza alle complicate prescrizioni della quotidianità ebraica. Come si spiega? Solo col fatto che chi è forte nella sua fede può davvero vivere laicamente.
Allo stesso modo, una comunità forte può permettersi il lusso di essere aperta. Fu rav Mordechai ad accompagnarmi nella più grande Yeshivà di Gerusalemme, nel quartiere ortodosso di Me'a Sharim, e farmi vivere lì dentro una delle esperienze più sconvolgenti della mia vita. Tutto mi spiazzò, lì dentro. Non c'era nessuno a controllarmi, niente metal detector. Salii una scala a chiocciola piena di uomini vestiti di nero che sembravano non vedermi. Ero un intruso, avrei potuto essere un attentatore: che cosa, mi chiedevo, dava a costoro tanta sicurezza? Quando arrivai in cima, capii. Dal ballatoio mi sporsi sulla sala di lettura dove tre-quattrocento uomini leggevano ad alta voce non lo stesso testo, ma centinaia di testi diversi. C'era chi discuteva col vicino, chi s'arrabbiava col libro che non capiva, chi proclamava stentoreo qualcosa, e persino chi dormicchiava spossato da tanto sforzo. Il popolo della Regola esprimeva una pazzesca, caotica sregolatezza.
Eppure, non era un mamicomio. Ovunque lo sarebbe stato, ma non lì. Quella marea di voci non generava cacofonia ma un'onda sonora armonica e unitaria che mi cullava come il rumore di un fiume e mi rassicurava come uno scudo stellare. Ecco da dove veniva tutta la provocatoria sicurezza degli ebrei ortodossi che non mi avevano controllato all'ingresso. Ero stupefatto. Non sapevo la lingua, ma capivo. Non ero ebreo, ma mi sentivo fratello di quella gente. Ero sintonizzato con la voce del popolo del Libro, e per la prima volta quella definizione dei monoteismi mi parve chiara, persino ovvia. Come non l'avevo capito prima? Ero nella cattedrale della lettura, nella massima celebrazione possibile del diritto dell'uomo a interpretare, a mettersi con la sua intelligenza di fronte alla Parola scritta.
È stato lì, a Gerusalemme, che ho cominciato a pensarci. Una scuola talmudica non servirebbe solo a riagganciare gli ebrei triestini ai fondamenti della loro religione, ma avrebbe ricadute immense su tutto il resto della città. Riporterebbe qui l'élite di un popolo che ha seminato pensiero come nessun altro. Ristabilirebbe il valore della parola in mondo di Sms, e-mail e Tv spazzatura. Farebbe compiere all'immaginario collettivo della città un formidabile scatto in avanti, con potenti irradiazioni in molti campi. Dopo questo attentato di Gerusalemme, sono ancora più convinto della bontà dell'idea. Il luogo chiuso della Yeshivà, ancorato a Trieste, avrebbe effetti ancora più forti di quelli generati persino da un Centro di fisica teorica o da un Collegio del Mondo Unito, con i loro cervelli nomadi di passaggio. Un'accademia talmudica aiuterebbe la città a ritrovare la sua complessità perduta e ridiventare autenticamente cosmopolita dopo un secolo di deliri nazionalistici che ne hanno segnato il destino in negativo.
La controprova è proprio quella strage: chi ha colpito sapeva dell'importanza di quel luogo per Gerusalemme e Israele. Chi ha sparato sugli inermi non l'ha fatto a caso. Voleva colpire il cuore del pensiero ebraico, colpire il Libro nelle mani di ragazzi innocenti e quindi distruggere alla base la speranza. Solo il bombardamento della venerabile biblioteca di Sarajevo – dove, ricordiamolo, musulmani ed ebrei hanno combattuto assieme contro gli aggressori – ha avuto eguale impatto simbolico su un popolo.
Nell'ultimo numero del mensile della comunità ebraica triestina vi è una lettera che mette il dito sulla piaga e mostra un popolo al bivio tra l'assimilazion e l'estinzione demografica. La via d'uscita, scrive da Israele Michele Cogoi, non è essere di manica più larga nel definire chi è e chi non è ebreo, ma il ritorno ai fondamenti della fede. «Trovo incredibile – aggiunge – che persone dotate di cultura e intelligenza non affrontino questo problema e non riconoscano l'innegabile sterilità inter-generazionale dell'ebraismo laico». «Quando la nave affonda si può certo scegliere di ridipingere le pareti, far suonare l'orchestra e continuare a ballare illudendosi che tutto vada bene. Ma forse è meglio prendere il megafono ed esortare ciurma e passeggeri a saltare nella scialuppa di salvataggio». A Gibilterra, scrive Cogoi, esisteva lo stesso problema, ma la comunità ne è uscita ritornando allo studio e all'osservanza della Torà. I frutti si sono raccolti in meno di una generazione. (Vedi link)
Da cristiano non c'entro niente, sono l'ultimo a poter dare consigli. Ma sono certo che Cogoi abbia ragione. Solo una comunità attaccata alla Legge e forte al suo interno potrà essere davvero aperta e spalancare le sue porte nei momenti opportuni alla città, così come accade per i greci nel giorno di Natale, quando il crocefisso viene gettato in mare. Tutti devono sapere che accanto al melone e all'alabarda c'è anche il candelabro a sette braccia.
Paolo Rumiz, IL PICCOLO (09 marzo 2008)
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