C'è un verso nella Torà che dice: “Cinque di voi inseguiranno cento e cento di voi inseguiranno diecimila ed i vostri nemici cadranno di fronte a voi [ ]” (Vaikrà – Levitico 26 : 8). Contabili, banchieri e matematici dovrebbero essersi già posti la domanda che si pone il Midrash: ma la proporzione è giusta? Se cinque ebrei possono inseguire cento nemici (ovvero venti volte il proprio numero), cento ebrei dovrebbero essere in grado di inseguire non più di duemila nemici. Perchè allora il verso dice che cento ebrei possono inseguire diecimila nemici, ovvero un numero cento volte più grande?
Da questo verso si possono ricavare tre principi relativi all'importanza fondamentale della comunità ebraica.
Innanzitutto il verso non dice che un ebreo è in grado di inseguire venti nemici, ma cinque ebrei sono in grado di inseguirne cento. Da qui ricaviamo che la forza degli ebrei dipende dal fatto che si uniscano in una comunità.
In secondo luogo all'aumentare del numero degli ebrei aumenta il numero di nemici che si è in grado di perseguire. Da qui impariamo che l'aiuto divino aumenta esponenzialmente all'aumentare del numero degli ebrei che si associano alla comunità.
In altre parole la forza del popolo ebraico deriva dal fatto che gli ebrei si uniscono nel perseguire il volere divino ed essa aumenta all'aumentare dei membri della comunità.
Un lettore attento potrebbe già sollevare una legittima obiezione. Il principio che un gruppo di persone non è semplicemente la mera somma degli individui che lo compongono è un concetto noto e non esclusivamente relativo al popolo ebraico. È la base del funzionamento della società. Ma sarebbe comunque già gran cosa se il verso volesse insegnarci solo questo principio.
Da un'analisi più approfondita ci rendiamo conto che la Torà ci vuole insegnare anche un altro principio. Dal fatto che cinque ebrei possono inseguire venti nemici e che cento ebrei possono inseguirne diecimila, non deriviamo solo che vi sono dei chiari benefici derivanti dal vivere una vita comunitaria, ma apprendiamo anche l'incredibile idea che la forza del popolo ebraico, quando gli ebrei si uniscono nel perseguire il volere divino, supera di gran lunga quella dei non ebrei.
Non preoccupatevi, non stiamo invocando una guerra di religione contro i nostri simpatici vicini di casa, ma stiamo solo cercando di dire che i benefici che un individuo ottiene unendosi ad una comunità ebraica sono su un piano totalmente differente rispetto alla mera associazione degli individui nella società.
È un principio stupefacente e degno della massima considerazione. Ma vediamo che ha anche delle applicazioni pratiche.
Basta anche solo una rapida scorsa al siddur o al machazor per rendersi conto che nelle tefillot (preghiere) preghiamo per cose che apparentemente non ci riguardano. Per esempio preghiamo per la nostra guarigione anche quando stiamo bene. Perchè?
Inoltre le tefillot quasi sempre non sono espresse al singolare, ma al plurale. Anche quando abbiamo bisogno di una guarigione non diciamo “curami”, ma “curaci”. Perchè?
I nostri Maestri ci spiegano che le nostre tefillot hanno maggiore efficacia quando una persona fa parte di una comunità. L'halachà prescrive che se una persona, anche il più grande tzaddik, non è in grado di unirsi fisicamente alla comunità per le tefillot, deve almeno pregare allo stesso momento in cui lo fa la propria comunità. In questo modo si unisce ad essa e non solo idealmente.
La presa di coscienza di questo concetto è molto importante, in particolare prima di Tishà Be-Av. La distruzione del secondo Bet Ha-Mikdash (Tempio di Gerusalemme) con la quale inizia l'esilio in cui ci troviamo in questo momento, deriva infatti da sinat chinam, “odio ingiustificato”. E il motivo per cui il Bet Ha-Mikdash non viene ricostruito, ci insegnano i Maestri, è perchè non abbiamo ancora corretto il nostro comportamento. Ritrovare il proprio ruolo nella comunità per unirsi ad essa sembra indirizzarci invece verso la giusta direzione.
I nostri Maestri ci fanno notare anche che le tre settimane che vanno dal 17 di Tammuz al 9 di Av sono le prime tre delle dieci settimane che ci separano da Rosh Ha-Shanà, i dieci giorni penitenziali e Yom Kippur. Si tratta di un periodo nel quale dobbiamo lavorare per giungere preparati agli appuntamenti fondamentali del nuovo anno.
Riconnetterci con il popolo ebraico aiuta a far sì che le nostre preghiere vengano ricevute favorevolmente ed è un passo fondamentale che ci aiuta ad intraprendere il percorso di teshuvà, inteso come l'attivazione del processo in cui rifocalizziamo le nostre ambizioni di vita verso obiettivi ebraici comunitari più significativi.
Il ruolo della comunità non è limitato alle preghiere al bet ha-kenesset, ma include anche tutti gli altri aspetti della vita ebraica. Non solo durante le festività, ma durante tutto l'anno e tutta la nostra vita. In altre parole riconnetterci con il popolo ebraico è parte del processo di riconnessione con Ha Kadosh Baruch-Hu.
È pertanto di primaria importanza realizzare che ognuno di noi ha molto da offrire alla comunità e la comunità ha molto da offrire all'individuo. E per essere inclusi nella comunità non basta la tessera di appartenenza, ma bisogna prendere a cuore i bisogni spirituali, materiali ed emotivi degli altri e fare qualcosa per migliorare le cose. Ognuno secondo le proprie capacità e possibilità.
Bisogna tener presente non solo che un ebreo che si unisce alla comunità vale cento o mille persone, ma vale anche l'opposto: la mancanza di un ebreo da una comunità è come se mancassero cento o mille persone.
Se siamo in grado di fare nostre e condividere le gioie e sofferenze dei nostri fratelli ebrei, siano essi seduti al posto accanto al nostro al bet ha-kenesset o a migliaia di chilometri di distanza, saremo in grado di essere uniti durante le festività e durante il resto dell'anno. E avremo messo in pratica l'insegnamento del summenzionato passuk.
Tale consapevolezza farà sì che le preghiere che reciteremo non usciranno solo dalle nostre labbra, ma sgorgheranno copiose dai nostri cuori.
Possa il Bet Ha-Mikdash essere ricostruito rapidamente ai nostri giorni.
Michele e Daniele Cogoi
Da questo verso si possono ricavare tre principi relativi all'importanza fondamentale della comunità ebraica.
Innanzitutto il verso non dice che un ebreo è in grado di inseguire venti nemici, ma cinque ebrei sono in grado di inseguirne cento. Da qui ricaviamo che la forza degli ebrei dipende dal fatto che si uniscano in una comunità.
In secondo luogo all'aumentare del numero degli ebrei aumenta il numero di nemici che si è in grado di perseguire. Da qui impariamo che l'aiuto divino aumenta esponenzialmente all'aumentare del numero degli ebrei che si associano alla comunità.
In altre parole la forza del popolo ebraico deriva dal fatto che gli ebrei si uniscono nel perseguire il volere divino ed essa aumenta all'aumentare dei membri della comunità.
Un lettore attento potrebbe già sollevare una legittima obiezione. Il principio che un gruppo di persone non è semplicemente la mera somma degli individui che lo compongono è un concetto noto e non esclusivamente relativo al popolo ebraico. È la base del funzionamento della società. Ma sarebbe comunque già gran cosa se il verso volesse insegnarci solo questo principio.
Da un'analisi più approfondita ci rendiamo conto che la Torà ci vuole insegnare anche un altro principio. Dal fatto che cinque ebrei possono inseguire venti nemici e che cento ebrei possono inseguirne diecimila, non deriviamo solo che vi sono dei chiari benefici derivanti dal vivere una vita comunitaria, ma apprendiamo anche l'incredibile idea che la forza del popolo ebraico, quando gli ebrei si uniscono nel perseguire il volere divino, supera di gran lunga quella dei non ebrei.
Non preoccupatevi, non stiamo invocando una guerra di religione contro i nostri simpatici vicini di casa, ma stiamo solo cercando di dire che i benefici che un individuo ottiene unendosi ad una comunità ebraica sono su un piano totalmente differente rispetto alla mera associazione degli individui nella società.
È un principio stupefacente e degno della massima considerazione. Ma vediamo che ha anche delle applicazioni pratiche.
Basta anche solo una rapida scorsa al siddur o al machazor per rendersi conto che nelle tefillot (preghiere) preghiamo per cose che apparentemente non ci riguardano. Per esempio preghiamo per la nostra guarigione anche quando stiamo bene. Perchè?
Inoltre le tefillot quasi sempre non sono espresse al singolare, ma al plurale. Anche quando abbiamo bisogno di una guarigione non diciamo “curami”, ma “curaci”. Perchè?
I nostri Maestri ci spiegano che le nostre tefillot hanno maggiore efficacia quando una persona fa parte di una comunità. L'halachà prescrive che se una persona, anche il più grande tzaddik, non è in grado di unirsi fisicamente alla comunità per le tefillot, deve almeno pregare allo stesso momento in cui lo fa la propria comunità. In questo modo si unisce ad essa e non solo idealmente.
La presa di coscienza di questo concetto è molto importante, in particolare prima di Tishà Be-Av. La distruzione del secondo Bet Ha-Mikdash (Tempio di Gerusalemme) con la quale inizia l'esilio in cui ci troviamo in questo momento, deriva infatti da sinat chinam, “odio ingiustificato”. E il motivo per cui il Bet Ha-Mikdash non viene ricostruito, ci insegnano i Maestri, è perchè non abbiamo ancora corretto il nostro comportamento. Ritrovare il proprio ruolo nella comunità per unirsi ad essa sembra indirizzarci invece verso la giusta direzione.
I nostri Maestri ci fanno notare anche che le tre settimane che vanno dal 17 di Tammuz al 9 di Av sono le prime tre delle dieci settimane che ci separano da Rosh Ha-Shanà, i dieci giorni penitenziali e Yom Kippur. Si tratta di un periodo nel quale dobbiamo lavorare per giungere preparati agli appuntamenti fondamentali del nuovo anno.
Riconnetterci con il popolo ebraico aiuta a far sì che le nostre preghiere vengano ricevute favorevolmente ed è un passo fondamentale che ci aiuta ad intraprendere il percorso di teshuvà, inteso come l'attivazione del processo in cui rifocalizziamo le nostre ambizioni di vita verso obiettivi ebraici comunitari più significativi.
Il ruolo della comunità non è limitato alle preghiere al bet ha-kenesset, ma include anche tutti gli altri aspetti della vita ebraica. Non solo durante le festività, ma durante tutto l'anno e tutta la nostra vita. In altre parole riconnetterci con il popolo ebraico è parte del processo di riconnessione con Ha Kadosh Baruch-Hu.
È pertanto di primaria importanza realizzare che ognuno di noi ha molto da offrire alla comunità e la comunità ha molto da offrire all'individuo. E per essere inclusi nella comunità non basta la tessera di appartenenza, ma bisogna prendere a cuore i bisogni spirituali, materiali ed emotivi degli altri e fare qualcosa per migliorare le cose. Ognuno secondo le proprie capacità e possibilità.
Bisogna tener presente non solo che un ebreo che si unisce alla comunità vale cento o mille persone, ma vale anche l'opposto: la mancanza di un ebreo da una comunità è come se mancassero cento o mille persone.
Se siamo in grado di fare nostre e condividere le gioie e sofferenze dei nostri fratelli ebrei, siano essi seduti al posto accanto al nostro al bet ha-kenesset o a migliaia di chilometri di distanza, saremo in grado di essere uniti durante le festività e durante il resto dell'anno. E avremo messo in pratica l'insegnamento del summenzionato passuk.
Tale consapevolezza farà sì che le preghiere che reciteremo non usciranno solo dalle nostre labbra, ma sgorgheranno copiose dai nostri cuori.
Possa il Bet Ha-Mikdash essere ricostruito rapidamente ai nostri giorni.
Michele e Daniele Cogoi
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Un'iniziativa di mikeamchaisrael.blogspot.com per il mondo ebraico italiano
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