lunedì 28 giugno 2010

L'ESSENZA DEL MATRIMONIO EBRAICO

Tratto dalla derashà in occasione delle Sheva Berachot di Angela Moresco di Roma e Ahron Bracha di Milano, sposati a Yerushalaim tovev'a.

Inizio parafrasando l'introduzione a “Messilat Yesharim” (“Il percorso dei giusti”) dell'italiano Ramchal (Rav Moshe Chaim Luzzato): in questa derashà non troverete niente di nuovo, dato che parlerò solo di cose note. Ma è sempre utile ripetere alcuni concetti fondamentali del rapporto tra uomo e donna. In particolare in un'occasione come questa.


Dopo aver creato Adam Ha-Rishon ed averlo messo nel Gan Eden, “il Signore disse: non è bene che Adam sia solo, farò per lui un aiuto (“ezer”) al suo opposto (“kenegdo”)” (Bereshit 2:18). Segue quindi la creazione di Chava (Eva) dalla sua “costola”.

Il verso citato non è di facile comprensione. Cosa vuol dire che l'uomo era da solo? Cosa gli mancava? Cosa c'era di non buono nella creazione di Adam Ha-Rishon? In che modo la donna è un aiuto per lui? E cosa vuol dire che essa stà al suo opposto? Proviamo a capire.

Tre versi prima, troviamo la ragione per cui Adam Ha-Rishon viene messo nel Gan Eden: “le-ovdah ve-leshomrah”, “per lavorarla e custodirla” (Bereshit 2:15). La costruzione grammaticale indica che l'oggetto (al femminile) non è certo il Gan Eden (che è maschile). L'Or Ha-Chaim Ha-Kadosh (che fu Rosh Yeshiva a Livorno per alcuni anni) chiede infatti: Adam Ha-Rishon doveva forse lavorare la terra se i frutti crescevano già spontaneamente? Da chi o cosa doveva proteggere il Gan Eden se era l'unico essere umano sulla terra?

In altre parole Adam Ha-Rishon non era certo un kibbutznik. Il passuk si riferisce al fatto che lavorava e proteggeva la sua anima appena “soffiatagli” da Ha-Kadosh Baruch-Hu. In che modo? Studiava ed osservava la Torà. La “missione” primaria dell'uomo nel Gan Eden, ancor prima del comandamento di non mangiare dall'albero del bene e del male (che si trova due versi dopo) è quindi quella dello studio e dell'osservanza della Torà. Trattandosi dell'attività che definisce l'essenza dell'uomo e non dovendosi occupare di nient'altro, cosa mancava ad Adam Ha-Rishon?

Nella descrizione iniziale della creazione di Adam Ha-Rishon, che precede la creazione della donna dalla “costola”, egli viene già creato “zachar u-nekevà”, “maschio e femmina” e gli viene data la mitzvà di “pru u-rvu”, “crescete e moltiplicatevi”, ovvero di avere dei figli (Bereshit 1:27-28).

Secondo la spiegazione aggadica, Adam Ha-Rishon venne creato con due volti, sia uomo che donna. E la donna nasce come entità separata in un secondo momento, seguendo un processo di “divisione”. Si può supporre che Adam Ha-Rishon aveva già la facolta di riprodursi e che la creazione della donna non è quindi finalizzata alla riproduzione.

Secondo lo pshat (spiegazione letterale), la prima descrizione della creazione dell'uomo e della donna viene fatta in termini generali. Nel successivo racconto si descrivono i particolari. Viene creato prima l'uomo e dopo la constatazione che “non è bene che l'uomo sia solo” viene creata, per separazione, la donna (Bereshit 2:21-23). Si potrebbe pensare che, secondo lo pshat, la facoltà di riproduzione sia la ragione per cui è stata creata la donna.

Vediamo però che tra la constatazione che l'uomo è solo e la creazione della donna, Adam Ha-Rishon passa in rassegna tutti gli animali del mondo, ne comprende l'essenza e dà ad ognuno il nome appropriato. Il racconto di tale evento termina dicendo: “e non trovò una aiuto al suo opposto (“ezer kenegdo”) (Bereshit 2:19-20). Già qui comprendiamo che, anche secondo lo pshat, se Adam Ha-Rishon cercava tra gli animali l'“ezer kenegdo”, non si trattava certo di una questione di riproduzione.

La ghemarà conferma questa tesi e ricava proprio dal “nostro” passuk che “anche se l'uomo ha molti figli, gli è proibito rimanere senza moglie, com'è detto: non è bene...” (Yevamot 61b) e che “ogni uomo che non ha una moglie si ritrova [...] senza nulla di buono, com'è detto: non è bene...” (Yevamot 62a). La finalità principale del matrimonio va quindi ben al di là dell'avere dei figli.

Il commentatore bolognese Ovadia Sforno, ancora un italiano, spiega che l'uomo “non raggiungerebbe l'obiettivo di essere immagine e somiglianza del Creatore se dovesse egli stesso occuparsi delle faccende della vita” e pertanto ha bisogno di una moglie per liberarlo da tali incombenze.

I commentatori si dilungano nel descrivere e lodare la “messirut nefesh” del ruolo subalterno della donna che si “sacrifica per l'uomo”. Si cita anche il caso di Rabbi Akiva che torna a casa dopo 24 anni di studio della Torà e afferma che il merito di tale studio è da attribuirsi alla moglie che lo ha permesso (sposandolo segretamente a condizione che studiasse la Torà e vivendo in estrema povertà) (Nedarim 50a, Ketubot 62b). Ma se si prendesse questa spiegazione in modo superficiale, per descrivere ciò che mancava all'uomo piuttosto che “ezer kenegdo” (un aiuto al suo opposto), il passuk non avrebbe forse dovuto usare l'espressione “ozeret bishvilo” (una donna... di servizio per lui)?

In aggiunta, nella terza istanza in cui si definisce la creazione dell'uomo (dopo la creazione iniziale e la “divisione”) si dice: “zachar u-nekevà (uomo e donna) li creò, li benedisse e li chiamò Adam” (Bereshit 5:2). La ghemarà deriva da questo passuk che “ogni uomo (Adam) che non ha una moglie, non si chiama uomo (Adam)” (Yevamot 63a). Non è quindi che l'uomo grazie alla moglie può fare meglio l'uomo. L'uomo senza una moglie non è un uomo. Cosa vuol dire?

Addentrandomi nell'argomento ho scoperto con gran gioia che la domanda se la pone l'Amorà (“dottore” della ghemarà) Rav Yosi: “in cosa la donna aiuta l'uomo?” (Yevamot 63a). La domanda nasce dal fatto che la parola “ezer” (“aiuto”) si usa quando una persona aiuta un'altra per compiere la medesima azione (per esempio sollevare una seggiola in due) e non nel suddividersi il lavoro (uno solleva la seggiola e l'altro sposta il tappeto) (Torah Temima). Qual è questa stessa azione che l'uomo e la donna compiono? Perchè l'uomo non la può compiere senza la donna? E perchè è proprio la donna e nessun altra creatura a costituire l'aiuto ideale per l'uomo? Non trovando risposta Rav Yosi si rivolge addirittura ad Eliahu Ha-Navì.

Ho sentito una spiegazione a questo passuk da Rav Yaakov Hillel shlita, forse il più grande cabalista di questa generazione. Spero, Be-ezer Ha-Shem, di ripeterla fedelmente.

Ogni giorno recitiamo più volte lo shemà. Al passuk iniziale “Shemà Israel”, recitato per la prima volta dai figli di Yaakov Avinu (le 12 tribù) poco prima della sua morte, ne fa seguito un secondo “Baruch Shem Kevod”, recitato dallo stesso Yaakov Avinu subito dopo, quando raggiunse livelli “angelici” (Pesachim 56a). Oltre all'accettazione del giogo celeste e del giogo delle mitzvot, con entrambi pesukkim si dichiara l'unità del Nome di D-o (Ichud HaShem). Perchè c'è bisogno di ripetere due volte lo stesso concetto?

Sappiamo che oltre a questo mondo esistono diversi mondi superiori. Secondo i nostri Maestri, il primo passuk si riferisce all'unità del Nome di D-o nei mondi superiori che si ottiene attraverso lo studio della Torà. Il secondo passuk si riferisce invece all'unità del Nome di D-o in questo mondo che si ottiene dalle nostre attività in questo mondo. La prima attività ha una connotazione “maschile”, mentre la seconda ha una connotazione “femminile”. Come comprendere questi concetti?

Mashal. Un re, dopo aver costruito il suo vasto regno, vuole sapere se è veramente il re. Ritiene infatti che un re è un vero re non perchè ha il potere su una serie di nazioni, ma solo se è rispettato e riconosciuto come tale dai sudditi del suo regno. Sentita la turbativa del re, i cortigiani si affrettano a convocare i ministri i quali spiegano per filo e per segno quanto il re sia stato eccellente nella tal guerra e nella tal riforma economica, quanto sia un re giusto e quanto abbia dato aiuto i bisognosi, menzionano la sua clemenza, misericordia e tutti gli altri attributi del re.

Ma il re non è contento. “Che mi riconoscano come re nel mio palazzo non è poi così gran cosa. Voglio sapere cosa pensano di me i sudditi che non mi hanno mai visto. Quelli che abitano lontani dal palazzo, al confine del mio vastissimo regno e che sentono ogni giorno le accuse nei miei confronti da parte dei nostri acerrimi nemici che vivono a due passi da loro.”

Non senza preoccupazione i cortigiani lo travestono e lo mandano in incognito a sentire egli stesso cosa si pensa di lui al “confine dei nostri nemici”. Passeggia nei campi e al mercato, entra nelle botteghe e nelle osterie, sbircia tra le finestre e ascolta le donne chiacchierare. E in ogni discorso sente solo lodi nei confronti del re. La missione si è conclusa in modo positivo: “Melò chol ha-aretz kevodò” (la terra intera è piena del Suo onore) (Isaia 6:3). E il re è soddisfatto: “Ora so che sono veramente il re!”.

Nimshal. Un ben-Torà (persona che vive una vita completamente basata sulla Torà) che passa gran parte della sua giornata nel bet ha-medrash, immerso nei suoi “arba amot” - a destra Gemara, Rashi e Tosfot, a sinistra Shulchan Aruch, Rabbi Akiva Eger e Kezos, di fronte un maggid shiur (rav) e dietro di lui è circontato dai benè chabura (compagni di studio) - non ha molta difficoltà a riconoscere la presenza di Ha-Kadosh Baruch-Hu nella propria vita.

Ma la donna - una patata e una cipolla alla sua destra, una scopa e uno stendibiancheria a sinistra, un bambino che piange di fornte a lei e circondata dalla competizione delle colleghe di lavoro - ha un lavoro ben diverso, e per certi versi molto più difficile, nel riconoscere la presenza di Ha-Kadosh Baruch-Hu nella propria vita.

In questo modo si trova risposta a tutte le nostre domande. L'uomo era solo perchè ciò che gli mancava era l'abilità di “portare” la presenza divina, l'unificazione dei mondi superiori, in questo mondo. E ciò non è un bene come ogni cosa incompleta. L'uomo non sarebbe capace di trovare la spiritualità tra le quattro pareti domestiche e la donna non troverebbe Ha-Kadosh Baruch-Hu tra gli “arba amot” del bet ha-medrash.

L'unità divina potenziale ottenuta dall'uomo trova una attuazione nella donna. La donna lo può fare perchè è “kenegdo”, strutturata in modo diverso, opposta all'uomo, ovvero ricettacolo della spiritualità che egli crea, e può così essere un “ezer” per l'uomo e completarlo nel compito di unificare il Nome di D-o, riconoscendolo sia nei mondi superiori che in questo mondo. “Spiega Rabbi Akiva: uomo e donna meritano la Sh'chinà (presenza divina) tra loro” (Sota 17a). E a differenza dell'attività maschile, visibile e riconoscibile (ad alta voce come la lettura di “Shemà Israel”) quella della donna è fatta, per così dire, sottovoce (come la lettura di “Baruch Shem Kevod”).

Quanto ho detto finora era già magistralmente riassunto nell'invito al matrimonio di Ahron e Angela. Sulla copertina appaiono infatti le “rashe tevot” (le iniziali o anche il riassunto) dei loro nomi: alef e alef. In altre parole la prima alef (valore numerico uno) rappresenta l'unificazione del Nome che è compito del marito e la seconda rappresenta l'unificazione del Nome che è compito della moglie.

Ma nell'invito si può anche trovare un'indicazione di come comportarsi l'uno verso l'altro. Le due alef non stanno in linea, ma una è lievemente più alta dell'altra. La moglie deve guardare il marito come colui che compie l'attività più elevata e rispettarlo ed onorarlo per questo. Allo stesso modo, il marito deve guardare la moglie come se è lei la creazione superiore che lo completa come uomo.

Al rientro a casa, quando la moglie chiede al marito di aiutarla nelle faccende domestiche, per esempio di passare la scopa, il marito lo fa con gioia convinto di fare del chessed alla moglie. Ma in verità è la moglie a fare del chessed al marito. In che modo? Se l'attività peculiare della moglie è quella di rivelare la presenza di Ha-Kadosh Baruch-Hu in questo mondo attraverso la faccende domestiche, chiedendo al marito di pulire per terra la moglie stà in effetti rinunciando al servizio divino che le pertiene per darne una parte al marito. È lei quindi a fare del chessed a lui ed egli deve esserle eternamente riconoscente. Il marito deve quindi sperare che la moglie gli offra magari anche di portare fuori la spazzatura...

Baruch Ha-Shem mia moglie non è qui stasera. In primo luogo perchè l'avreste sentita da un bel po' dire “ma che ne sa mio marito di queste cose?”. E non posso che darle ragione. Non sto insegnando niente, ma sto solo ripetendo a me stesso quello che i nostri Maestri ci insegnano a riguardo. In secondo luogo perchè mia moglie non ha ancora sentito questa derashà e non sa che quando mi chiede di aiutarla in casa, non è che io sto facendo un favore a lei, ma è lei che lo fa a me. Nessuno glielo dica per favore...

Per finire, nel monogramma dell'invito, vi è anche un altro elemento. Se guardiamo bene, tra le due alef si intravede una bet, l'iniziale del cognome della coppia: Bracha. E concludo quindi con la mia b'rachà, che questo sia un “zivug” (coppia) alef-alef (simbolo degli oggetti religiosi di primissima qualità), mehadrin min ha-mehadrin. Che sia un “binian ade-ad” e che meriti Torà, taharà, kedushà, parnassà, briut, chaim aruchim, shalom, simchà, Shechinà e figli che crescano nella Torà, mitzvot, chuppà e maasim tovim. E che tutti noi possiamo meritare la Shechinà nel Bet Ha-Mikdash, che venga ricostruito rapidamente ai nostri giorni.

Michele Cogoi
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Un'iniziativa di mikeamchaisrael.blogspot.com per il mondo ebraico italiano

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