martedì 8 settembre 2009

ROSH HA-SHANÀ!

Tutti noi conosciamo bene i rituali delle festività del nuovo anno. Il suono dello shofar a Rosh Ha-Shanà, il digiuno a Yom-Kippur, la benedizione dei cohanim, le bellissime melodie al Bet Ha-Kenesset e i pasti tradizionali sono certamente gli ingredienti perfetti per risvegliare la nostra identità ebraica.

Ma più che un'esperienza in cui si rivivono per qualche ora i sapori e i profumi della gioventù, quando i nostri genitori e nonni ci portavano al Bet Ha-Kenesset, le festività del nuovo anno rappresentano un'opportunità unica per ricominciare da zero e ricostruire un percorso ebraico che ha bisogno di essere migliorato, è stato interrotto o non è mai propriamente iniziato. Se vissute correttamente, le celebrazioni di queste festività ci permettono, per dirla con una metafora informatica, di premere il tasto “restart” della nostra identità ebraica.


Soffermiamoci su Rosh Ha-Shanà. La ripetizione annuale di rituali quali sentire lo shofar, mangiare la mela intinta nel miele e spedire cartoline in cui si augura salute, felicità e ricchezza, costituisce solo una serie di belle tradizioni? Non nego che si tratti di azioni di per sé significative e pregievoli. Ma vi è ben di più.

Nella nostra tradizione Rosh Ha-Shanà non rappresenta solo l'inizio di un nuovo anno, ma viene definito come il giorno del giudizio dell'uomo. Se è a Yom-Kippur che le nostre azioni sono vagliate, cosa rappresenta Rosh Ha-Shanà? E se siamo giudicati a Rosh Ha-Shanà, cos'è allora Yom Kippur?

Se un imputato viene accusato con prove schiaccianti di aver commesso un crimine gravissimo che comporta la pena capitale, una volta convocato in tribunale, ci aspetteremmo che chieda umilmente perdono, si scusi piangendo e si appelli alla clemenza della corte. Ma nulla di tutto ciò è presente nel servizio sinagogale di Rosh Ha-Shanà. Invece di presentarci prostrati e preoccupati, andiamo al Bet Ha-Kenesset vestiti di tutto punto, sorridenti e felici, comportamenti che sembrano in netto contrasto con lo spirito del giorno del giudizio.

Se analizziamo il vero significato della festività, ci rendiamo conto che non vi è alcuna contraddizione. Se fossimo convocati di fronte ad un'autorità che non riconosciamo e che non ha alcun potere su di noi, cosa faremmo? Nulla. Affinché il giudizio abbia un qualche significato, esso deve essere espresso da un'autorità che ha una reale influenza sulle nostre vite.

A Rosh Ha-Shanà affermiamo solennemente e sentiamo nel profondo del nostro cuore che Ha-Kadosh Baruch-Hù, il Creatore dell'universo, è Avinu Malkenu, il nostro Padre e il nostro Re. Cosa vuol dire?

Viviamo la maggior parte del nostro tempo, chi più chi meno, come se fossimo noi i padroni delle nostre vite e lasciamo ben poco spazio ad un'Autorità Superiore. Il caso verrà discusso, per così dire, dieci giorni più tardi a Yom-Kippur. Ma innanzitutto, affinché la discussione abbia un senso, c'è bisogno di chiarire chi sia il Giudice. La medesima necessità di ricollocare il Creatore al centro delle nostre vite si applica ugualmente al più grande rabbino, alla gente comune e ai neofiti, ognuno secondo la propria situazione di vita.

Si può obiettare che Egli ha poteri illimitati e non ha certo bisogno che noi Lo nominiamo Re. E si tratterebbe di una risposta senz'altro corretta. Ma siamo noi che dobbiamo renderci conto che Egli è il nostro Re. In altri termini, è la nostra prospettiva a riguardo che ha bisogno di essere cambiata e allineata all'eterna realtà della Torà.

A Rosh Ha-Shanà non vengono giudicate le nostre azioni passate, ma si valuta se siamo in grado o meno di scoprire dentro di noi e rivelare il nostro vero potenziale ebraico. E per quanto strano possa sembrare siamo giudicati, per certi versi, per il futuro.

Durante il suono dello Shofar, tutte le barriere che limitano le nostre vite e non ci permettono di vedere chiaramente, vengono rimosse. Durante questo momento così unico ed irripetibile, abbiamo tutti la capacità di sollevarci sopra le routine delle nostre vite e sentire sinceramente dal profondo dei nostri cuori che vogliamo sviluppare una relazione con il Creatore dell'universo e la Sua Torà.

È questo il momento culminante del mese di Elul, l'ultimo mese dell'anno, le cui lettere sono l'acrostico di “Anì Le-dodì Ve-dodì Li” in cui il Creatore si rende, per così dire, disponibile a tutti gli ebrei che vogliano accoglierlo nelle proprie vite.

Se compiamo questo passo tanto piccolo, ma allo stesso tempo immensamente grande, piantiamo i semi della nostra vita ebraica per anni e generazioni a venire. Tali semi devono essere successivamente bagnati, curati e fatti crescere. Ma senza semi non vi possono essere né piante né frutti. Questo è Rosh Ha-Shanà.

Una volta compreso tutto ciò, Yom-Kippur, invece di essere un giorno caratterizzato da sensi di colpa fini a se stessi, diventa il giorno in cui rivediamo le nostre azioni e ponderiamo come indirizzarle al meglio, secondo le nostre capacità e circostanze della vita, verso il Creatore.

Poi viene Sukkot, con le sue particolari celebrazioni e la sua gioia; gioia questa che deriva dall'aver ritrovato se stessi all'ombra della Shechinà, sotto la protezione della Presenza Divina.

Sarebbe bello vedere le sinagoghe italiane riempite a Rosh Ha-Shanà e le Sukkot gremite pochi giorni dopo, come avviene a Yom-Kippur. Non solo per far numero, sentire lo shofar e condividere i pasti nella Sukkà in compagnia dopo aver compiuto la mitzvà del lulav, ma come il segno che il messaggio delle festività del nuovo anno è penerato in noi.

È nostro augurio sincero che Rosh Ha-Shanà, Yom-Kippur e Sukkot siano delle esperienze significative nelle nostre vite e che lo stesso spirito continui durante tutto l'anno in modo che possiamo essere iscritti e confermati nel libro della vita.

K'tivà ve-chatimà tovà!

Michele e Daniele Cogoi

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