Sfogliando i libri di Halachà per capire le ragioni dell'antichissimo uso di non compiere ogni giorno la Benedizione Sacerdotale al di fuori della Terra d'Israele, si apre un inaspettato spiraglio sul ruolo della felicità nell'ebraismo e su come ottenerla.
Pubblicato su: Segullat Israel, Jarchon
Una volta inaugurato il Santuario e appena terminata per la prima volta l’offerta dei qorbanòt (sacrifici), Aharòn levò le braccia e benedisse il popolo d’Israele secondo la formula prescritta dalla Torà: “Così benedirete i figli d’Israele...” (Bemidbàr, 6: 22-27).
Si tratta di una triplice berakhà, splendida ed onnicomprensiva che i kohanìm (discendenti di Aharòn) impartiscono al popolo d’Israele, così parafrasata: (i) che ci vengano dati beni materiali e che siano protetti (in modo da poterci dedicare liberamente allo studio ed alla pratica della Torà) 1, (ii) che ci sia dato di comprendere i tesori della Torà e che (attraverso il compimento del nostro ruolo di ebrei) tutti ci guardino con favore 2 e (iii) che il Signore non si adiri con noi 3 e che ci permetta di vivere in pace.
Ovviamente è dal Signore che viene la berakhà. I kohanìm hanno “solo” il privilegio e l’obbligo di essere il “ponte” attraverso il quale questa splendida benedizione è trasmessa.
I Maestri concordano che si tratta di un comandamento della Torà il quale prescinde dall’esistenza del Bet Ha-Miqdàsh (Santuario) di Gerusalemme e pertanto va compiuto ogni giorno e ovunque. E dato che al giorno d’oggi, in assenza del Santuario, la tefillà (preghiera) sostituisce i qorbanòt (i sacrifici, anche se già ai tempi dei patriarchi la tefillà era obbligatoria), la birkàt kohanìm (benedizione sacerdotale) viene effettuata alla fine della ripetizione pubblica della ’amidà.
La domanda sorge spontanea: dato che è un comandamento da compiere quotidianamente, sempre e ovunque, perchè nella maggior parte delle comunità sefardite e nella totalità delle comunità ashkenazite al di fuori di Eretz Israel e in Galilea 5 , tale berakhà non viene impartita dai kohanìm ogni giorno, ma solo durante i Yamìm Tovìm (ricorrenze festive)?
Siccome il minhàg di non impartire la berakhà ogni giorno è antichissimo 6, il quesito se lo sono già posti i Rishonìm (i decisori dall’XI al XV secolo) centinaia di anni fa. Una tra le fonti più antiche spiega che l’uso di non dire la birkàt kohanìm su base quotidiana deriva: (i) dalla difficoltà di immergersi nel miqwè (bagno rituale) prima di impartire la berakhà (si pensi alle fredde acque in Europa durante i mesi invernali) 7 e (ii) da un problema di bittùl melakhà (astensione dal lavoro). Per rispettare le esigenze dei membri della comunità che devono recarsi al lavoro i Maestri non hanno voluto prolungare eccessivamente la tefillà (preghiera) mattutina. E dato che, tecnicamente, il precetto della birkàt kohanìm diventa imperativo solo se i kohanìm vengono sollecitati a compierla, è invalso l’uso di non chiamarli al loro dovere in modo da poter terminare rapidamente la tefillà.
Rav Yosef Caro (1488-1575), l’autore dello Shulchàn ‘Arùkh e del Bet Yosèf, critica invece tale minhàg sollevando alcune ovvie obiezioni. In primo luogo egli afferma che non è corretto astenersi dal compiere un precetto per le difficoltà derivanti dall’osservanza del minhàg di immergersi nel miqwè. Che si dica la berakhà senza essersi immersi nel miqwè! Inoltre, trattandosi di quindici parole in tutto (le quali allungherebbero la preghiera di un minuto al massimo!) non sembra essere un motivo valido per astenersi dal compiere un comandamento della Torà. Ed essendo in particolare una berakhà che incomincia proprio con i beni materiali, non sembra verosimile che ai membri della comunità risulti arduo prolungare di così poco la funzione; a maggior ragione se si considera che l’esito del lavoro dell’uomo dipende in ultima analisi dalla benedizione divina.
Essendo rav Yosef Caro la principale autorità halakhica nel mondo sefardita, in molte comunità diasporiche di rito orientale-spagnolo tale berakhà viene oggigiorno impartita quotidianamente dai kohanim 8.
Nei secoli successivi alcuni rabbanìm di primissimo piano del mondo ashkenazita, tra i quali il gaòn Eliyàhu di Vilna (1720-1797), concordando con le conclusioni di rav Yosèf Caro, cercarono di ripristinare la birkàt kohanìm quotidiana. Tuttavia il giorno prima della data stabilita per il ripristino, per motivi totalmente estranei alla vicenda, le autorità locali decisero di arrestare il Gaòn. Nello stesso tempo a Volozhin un incendio distrusse buona parte della città, incluso il bet ha-kenèsset prescelto proprio il giorno prima del ripristino della berakhà! Uscito di prigione, il gaòn di Vilna ritenne che queste sventure fossero inequivocabili segni dal Cielo in opposizione al ripristino e si astenne quindi dal riprovarci 9.
Rav Moshè Isserles (detto il Remà), l’autore ashkenazita delle glosse all’opera di rav Yosèf Caro, prende invece le difese del minhàg di non effettuare la birkàt kohanìm nella diaspora.
Nonostante anch’egli concordi con il fatto che si tratti di un precetto della Torà che si applica in ogni luogo ed epoca, aggiunge però che è necessario, come precondizione per effettuare la berakhà, che i kohanìm (e la comunità) si trovino in uno stato di gioia. E spiega quindi il termine di bittùl melakhà in un modo diverso da quanto detto sopra: la situazione degli ebrei nei paesi dell’Europa continentale è così misera ed angusta (si pensi ad antisemitismo, persecuzioni, carestie e restrizioni di ogni sorta) che non è possibile essere completamente gioiosi. Ed anche di Shabbàt, pur astenendoci dalle attività lavorative, non riusciamo a liberarci la mente dalle preoccupazioni del vivere quotidiano 10. Ed è quindi solo durante Yom Tov, in cui vige il comandamento we-samachtà be-chaghèkha, ovvero di essere in uno stato di gioia, che i kohanìm sono in grado di impartire (e tutti noi siamo in grado di ricevere) la loro berakhà 11. E dato che comunque vige per tutti il minhàg di immergersi nel mikvè in occasione di Yom Tov, si risolve così da sè anche il problema della tevillà nel miqwè da parte dei kohanìm 12.
Vi è da aggiungere che anche rav Yosèf Caro concorda con il Remà nel ritenere necessario essere in uno stato di gioia, ma le due autorità halakhiche differiscono nell’estensione dell’applicazione pratica di tale principio. Una fonte antica (ripresa nella codificazione halakhica del Remà) afferma che un kohèn che ha perso un genitore non può impartire la birkàt kohanìm durante i dodici mesi di lutto. Il Bet Yosèf ritiene invece che ogni ebreo in stato di lutto è comunque obbligato a rispettare tutti i comandamenti, birkàt kohanìm inclusa; pertanto, l’astensione è applicabile solo durante la fase acuta di dolore, ovvero i primi sette giorni di lutto, ma non oltre 13.
Ma cosa ha a che fare lo stato di gioia con l’essere idoneo a impartire (e ricevere) la berakhà? E com’è possibile che ci sia comandato di essere gioiosi (a Yom Tov)?
Una risposta può essere data in questo modo. È solo attraverso lo studio della Torà e la pratica delle mitzwòt durante tutti i giorni dell’anno che siamo in grado di apprezzare il ruolo che Ha-Kadosh Barukh-Hu ha nella nostra vita. Rav Moshè Chayyim Luzzatto (Ramchal) nel primo capitolo del Mesillàt Yesharìm dice infatti: “I nostri Saggi di buona memoria ci hanno insegnato che l’uomo è stato creato con l’unico scopo di gioire in D. e derivare piacere dallo splendore della Sua Presenza” e “il mezzo per giungere allo scopo sono le mitzwòt”. Ma date le nostre occupazioni e preoccupazioni quotidiane, il riconoscimento chiaro che Egli è la sorgente ultima della berakhà avviene in modo particolarmente tangibile attraverso le celebrazioni dei Yamìm Tovìm. Tale esperienza di vicinanza al Creatore è fonte di grande gioia. In altre parole, siamo in grado di ricevere una benedizione così bella e completa solo se facciamo di noi stessi un ricettacolo per accoglierla. E pertanto il comandamento di essere felici a Yom Tov può essere messo in pratica solamente se durante l’anno si è lavorato costantemente per sviluppare la propria identità spirituale interiore e non solo per il perseguimento di futilità di varia natura. E si giunge quindi preparati all’appuntamento di Yom Tov.
Questa gioia non deriva unicamente dal riconoscimento di Ha-Kadosh Barùkh Hu come esperienza privata o famigliare. Affinchè si possa impartire la berakhà esiste un’altra precondizione. È necessario che ognuno di noi sia in armonia con il proprio vicino ebreo. La Halakhà prescrive infatti che se il kohèn non è ben accetto dalla comunità o se un membro della comunità è in stato di lite con il kohèn, questi deve uscire dal bet ha-kenèsset al momento della birkàt kohanìm. Di ciò vi è un’indicazione anche dall’ultima parola della berakhà che i kohanìm recitano subito prima di compiere il loro servizio: “di benedire il popolo di Israele con amore” 14.
Non è certamente casuale che la birkàt kohanìm viene impartita “faccia a faccia” tra i kohanìm che si rivolgono verso la comunità e la comunità stessa, nel medesimo modo in cui i Keruvìm (le figure angeliche che sovrastano l’Arca della Testimonianza) si guardavano l’un l’altro. Quando i figli d’Israele venivano a Gerusalemme per osservare la mitzwà della ‘alià la-règhel (pellegrinaggio al Bet ha-Miqdàsh) in occasione delle feste di Pèsach, Shavu’òt e Sukkòt, se seguivano i comandamenti del Signore, potevano vedere i Keruvìm che si guardavano l’un l’altro. Quando il popolo d’Israele non seguiva i comandamenti del Signore, i Keruvìm volgevano i rispettivi volti dall’altra parte 15.
Il verso che segue la triplice berakhà “Essi collocheranno il Mio Nome tra i figli d’Israele e Io li benedirò” ha ora una spiegazione. La presenza del Nome di D. tra di noi è ottenibile attraverso lo studio della Torà, l’osservanza delle mitzwòt e l’armonia comunitaria. Ed è in questo modo che guadagnamo il merito di ricevere lo splendido contenuto della birkàt kohanìm .
Certo è che, seguendo il detto dei Maestri “chi ha un buon cuore benedica”, il requisito della gioia si applica in particolar modo ai kohanìm. La tesi sin qui esposta trova però conferma nel Sèfer Charedìm secondo il quale il comandamento della birkàt kohanìm è applicabile non solo ai kohanìm (di compierla) ma anche al popolo d’Israele (di riceverla) 16. Ovvero, anche la comunità è tenuta a prepararsi opportunamente.
Per finire, resta solo da comprendere perchè in Eretz Israel la birkàt kohanìm è impartita ogni giorno. La presente analisi dimostra che, nonostante le condizioni di vita siano per molti più difficili in Terra d’Israele che in Occidente, il popolo d’Israele è in grado invece di raggiungere lì, nel “Palazzo reale”, un’unità collettiva ed una vicinanza al Creatore ad un livello ben più elevato rispetto alla Diaspora. In altre parole, il livello di gioia ottenibile anche oggi in Eretz Israel è così elevato che la birkat kohanim può essere impartita giornalmente e non solo a Yom Tov.
Non va però dimenticato che il massimo livello di gioia sarà solo ottenbile quando la birkàt kohanìm verrà ricollocata nel suo luogo originario, ovvero all’interno del servizio sacrificale compiuto nel Bet Ha-Miqdàsh di Gerusalemme. Che sia ricostruito rapidamente nei nostri giorni.
Michele Cogoi
Note
1. Cosi spiega R. ‘Ovadyà Sforno.
2. Cosi spiega Or Bahìr sulla base di Or Ha-Chayyìm. Cfr. anche il Midràsh Sifrè (41) dove è detto: Yaer è la luce della Torà e Wichunèka che il Signore faccia sì che le creature siano benevolenti con te.
3. Cosi spiega Rashì. Nella Torà è scritto Issà Hashem panàw elèkha cioè che ci dia un trattamento di favore. Nel Midrash Rabbà viene posta la domanda di come sia possibile che il Signore ci dia un trattamento di favore dal momento che è scritto (Devarìm, 10:17) Asher lo issà panim, cioè che nel giudizio il Signore non fa favoritismi”? E viene spiegato: “Disse il Santo Benedetto, cosi come loro fanno favoritismi con me cosi io faccio con loro. Ho scritto nella Torà «e mangerai, e ti sazierai e benedirai» e gli ebrei anche se non hanno da mangiare a sufficienza per saziarsi, mi fanno il favore di essere puntigliosi e di dire la birkàt ha-mazòn anche per una quantità di un’oliva o di un uovo; per questo è scritto Issà Hashem panàw...”.
4. Sèfer Ha-Chinùkh, 378. Rambam, Mishnè Torà, Hilkhòt Tefillà 14:1.
5. A Tiberiade, a Tzefat e a Haifa nella maggior parte delle sinagoghe la Birkàt Kohanìm non viene detta ogni giorno (n.d.r.).
6. Sha’arè Teshuvà (78) a S.‘A., O.C. 128:45 che cita i responsi Bet Efràyim.
7. Nel commento Mishnà Berurà allo Shulchàn ‘Arùkh, (O.C. (128: 44, 165) è scritto che a posteriori anche se i kohanìm non si sono immersi nel miqwè possono impartire la berakhà. Inoltre l’acqua del miqwè non deve essere fredda e può essere riscaldata.
8. Bet Yosèf, O. C., fine del cap. 128.
9. Netziv citato da Yalkùt Yosèf, Chèleq Rishòn, Hilkhòt Nessiàt Kapàim, Siman 9.
10. Vi è da dire che anche se la vita oggi è senz’altro molto più agiata, non sembra che l’umore della gente sia cambiato molto!
11. Remà, Shulchàn ‘Arùkh, O.C., 128:44.
12. I kohanìm usano fare la tevilà prima dei Yamìm Tovìm per la birkàt kohanìm di Yom Tov, tuttavia chi non ha fatto la tevilà può ugualmente impartire la berakhà (n.d.r.).
13. Bet Yosèf, fine cap. 128 e Shulchàn ‘Arùkh, 128:43.
14. Mishnà Berurà (S.’A., O.C., 128:10:37).
15. Talmùd babilonese, Masèkhet Yomà, 54b
16. Citato da Minchàt Chinùkh.
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