lunedì 15 ottobre 2007

SUKKOT: MOLTO PIU' DI SEMPLICI CAPANNE

Un'analisi delle halachot necessarie perchè semplici capanne possano chiamarsi sukkot idonee per celebrare la festività, ci fa comprendere l'essenza e il significato profondo delle nostre vite. E le tramuta in zman simchatenu, il periodo della nostra gioia.

Pubblicato su: Jarchon

Per celebrare la festa di Sukkot, la Torà ci prescrive, tra le altre cose, di “risiedere per sette giorni in sukkot (capanne)”, “affinchè sappiano le vostre generazioni che in capanne ho fatto stare i figli d’Israele quando li ho tratti dalla terra d’Egitto [ ]”. (Vaikrà / Levitico 23, 42-43).

Perchè, tra i tanti miracoli cui furono beneficiari i nostri padri, ricordiamo proprio la permanenza nelle capanne e non, per esempio, la manna che scendeva dal cielo o la fonte d’acqua che li seguiva nel deserto? Non è tanto una ricorrenza in cui commemoriamo la dimora dei nostri padri in abitazioni provvisorie e precarie, quanto piuttosto il ricordo della protezione loro accordata continuamente da D-o durante la permanenza nel deserto (Shulchan Aruch 625-1).

Il periodo di dimora nelle capanne inizia però al momento dell’uscita dall’Egitto, avvenuta durante Nissan, perchè allora festeggiamo Sukkot durante Tishri, ovvero oltre sei mesi dopo? Se costruissimo le sukkot in primavera sembrerebbe che anche noi come gli altri popoli ergiamo delle tettoie con l’intento di proteggerci dal sole, mentre in autunno è chiaro (prima di tutto a noi e poi agli altri) che lo facciamo per ben altri motivi, ovvero per osservare la mitzvà impartitaci dalla Torà e ricordiamo la protezione Divina ottenuta durante la permanenza nel deserto (Tur).

La Torà collega la festa di Sukkot al “periodo in cui raccoglierai il prodotto del tuo campo e della tua vigna” (Devarim / Deuteronomio 16, 13) e pertanto Sukkot è nota anche come Chag Asif (festa del raccolto). Il collegamento stagionale trascende la mera festa agricola: il periodo in cui i beni materiali abbondano è un momento ideale per abbandonare le nostre case e risiedere per una settimana in dimore precarie “in modo che le generazioni a venire non diventino arroganti e superbe nel periodo in cui le loro case si riempiono di beni materiali e si ricordino invece quale sia la loro casa eterna e il loro destino. E si rendano così conto che questa vita è solo una residenza temporanea” (Malbim).

Non è sufficiente erigere semplici capanne. Esistono infatti numerosissime halachot necessarie affinchè le capanne possano chiamarsi sukkot. Una loro analisi, ispirata in gran parte agli scritti di Rav Shimshon Rafael Hirsch (1807- 1888), ci permette di apprezzare ancor di più il significato e l’importanza della festività.

Non vi sono particolari requisiti per quanto riguarda le pareti (“defanot”) della sukkà: fintanto che ne delimitano lo spazio sufficiente ad accogliere roshò, rubò ve-shulchanò, ovvero mente, corpo e nutrimento, esse possono essere costituite da qualsiasi materiale sufficientemente robusto per sopportare la forza di un vento normale. Possono essere di pietra, di assi di legno o di tela.

Ognuno a seconda delle proprie possibilità. C’è chi ha appena i mezzi sufficienti per avere tre pareti o chi può a stento ergere due pareti ed abbozzarne una terza. Le pareti separano gli uomini e difiniscono lo spazio individuale in cui vivere ed esprimere la propria creatività e possono quindi essere costruite come meglio crediamo utilizzando prodotti della natura o dell’industria umana. Palazzi o baracche che siano, esse riflettono la nostra posizione sociale.

Ma più che le pareti, i modesti o superbi simboli della nosta forza o ricchezza, è la copertura protettiva (“schach”) a trasformare mere capanne in sukkot, dimore adatte a celebrare la festività. E per quanto riguarda la protezione, lo schach, siamo tutti uguali. È da questa “protezione dall’alto”, ovvero dalla protezione Divina, che deriva la nostra vera sicurezza, felicità, permanenza, pace e prosperità.

È un grave errore credersi capaci di costruire un edificio artificiale che possa proteggerci realmente. I beni che la terra produce ci danno generalmente un senso di sicurezza. Ma per l’ebreo è mipsolet goren veiekev, ovvero da ciò che gli altri popoli disprezzano, che si crea il suo tabernacolo di vita, rendendosi conto che qualsiasi palazzo si costruisca non è altro che una dirat arai, dimora temporanea.

Ed è questa concezione della vita che ci separa dagli altri popoli. Risiedere nella sukkà dovrebbe liberarci dalla deificazione di tutte quelle forze che tendono a intrappolare i nostri cuori e ad alienarci da D-o e dalla sua guida: le forze della natura e dell’ingegno umano che sono state elevate a divinità dal mondo non ebraico. Entrambi elementi sono negati dallo schach: esso deve essere gedule’ karka, ovvero sbocciato dalla natura, ma non deve essere mechubar, ancora collegato ad essa, nè fatto di terra, ovvero dalla natura stessa. Nè deve essere davar hamekabel tumà, ovvero utensili creati dall’uomo i quali, transitori per natura, sono suscettibili di divenire tame’, ritualmente impuri.

La soporavvivenza dell’uomo sulla terra non dipende quindi nè dalla natura nè dall’utilizzo della propria intelligenza per dominarla. Nel mondo non ebraico, l’obiettivo supremo dell’individuo e della società è di creare strutture sociali elaborate che sappiano resistere ad ogni pericolo. Ovvero assicurare una prospera esistenza in questo mondo, cui ogni bene materiale e spirituale devono esserne subordinati. Essi credono che non solo le mechizot (le pareti della costruzione), ma anche lo schach (l’elemento protettivo) possano essere costruiti dalle forze umane e naturali.

La sukkà ha quindi il compito di esortarci, di anno in anno, a non commettere questo errore. Teshvu k’ein taduru, ovvero compiendo nella sukkà tutte le nostre normali attività, consacriamo le nostre vite. L’ebreo utilizza i doni naturali e il prodotto dell’ingegno umano non per la propria protezione, ma come i mezzi per portare a termine il compito assegnatoci su questa terra, mentre la propria sopravvivenza e difesa vengono integralmente affidate a D-o.

La comprensione delle halachot necessarie per la corretta costruzione e dimora nella sukkà ci fa capire che non si tratta di semplici capanne. Se osserviamo il comandamento di risiedere nella sukkà comprendendo perchè lo facciamo, possiamo ricreare e ricollegarci all’esperienza della protezione Divina ottenuta dai nostri padri nel deserto e comprendere così la natura altrettanto miracolosa delle nostre vite. Tale presa di coscienza permette di ricondurci all’essenza e al significato profondo delle nostre vite e tramutarle in zman simchatenu, il periodo della nostra gioia.

Michele Cogoi

N.B. Questo non è un testo di halachà. Per le decisioni normative applicabili si faccia riferimento a testi appropriati e al vostro Rabbino di fiducia

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