La comprensione delle radici lontanissime della storia di Chanukka, del confronto con la cultura greca e del significato dell'accensione dei lumi permette di fare chiarezza sul ruolo degli ebrei al giorno d'oggi.
Pubblicato su: JewishLife, Jarchon
Qual’è il significato di Channukà?
Oltre duemila anni fa il mondo intero considerava la civiltà greca come la suprema cultura cui l’umanità potesse ambire. Tutti tranne il popolo d’Israele che riteneva di essere il portatore di una cultura ancora superiore. Il verso descrive infatti l’elezione del popolo ebraico: “E D-o farà di voi il popolo più elevato tra le genti della terra” (Devarim 26,19). La parola “elyon” (superiore, elevato) si può anche pronunciare “al yavan”, ovvero anche “superiore alla Grecia”.
La cosa evidentemente non piaque ai greci al punto che, caso unico tra tutti i popoli conquistati, anzichè incorporarli nel proprio pantheon culturale, decisero di distruggere la nostra religione. I decreti che emanarono furono disegnati con lo specifico scopo, non di annientarci fisicamente, ma di minare le fondamenta dell’ebraismo: l’osservanza dello Shabat e delle feste, la purezza familiare, il brit milà (circoncisione) e lo studio della Torà.
L’epilogo, doppiamente miracoloso, è noto. L’esiguo esercito ebraico formato da un manipolo di studiosi della Torà improvvisatisi militari si ribella e sconfigge la gremita ed organizzata schiera di soldati professionisti dell’impero greco. I cohanim (sacerdoti) entrano nel Tempio e trovano un ampolla d’olio non contaminato sufficiente per accendere la menorà (candelabro) per un solo giorno. Miracolosamente i lumi rimangono accesi per otto giorni.
Ma la storia di Chanukà inizia, in un microcosmo, cent’anni prima. Non come scontro tra due nazioni, ma come incontro tra due individui. Alessandro Magno, allievo di Aristotele, è il “capostipite” della futura potenza greca. Nella sua campagna militare si stava recando a Gerusalemme quando alcuni ebrei ellenizzati lo raggiunsero per descrivere il Tempio di Gerusalemme come un covo di reazionari. Alessandro Magno vi credette e decise di raderlo al suolo. Shimon Ha-Zaddik, il Cohen Gadol (Sommo Sacerdote) e leader degli ebrei decise di incontrarlo per cercare di placarlo. All’uscita di Gerusalemme, appena Alessandro vide Shimon Ha-Zaddik vestito con l’abito sacerdotale, compì un atto che mai aveva compiuto e mai più avrebbe ripetuto nella sua vita.
Scese dal suo carro imperiale e davanti agli occhi sbigottiti sia dei greci che degli ebrei s’inginocchiò ai piedi del Cohen Gadol. “Perchè un imperatore come te s’inginocchia davanti ad un semplice ebreo?” chiesero i suoi soldati. “La notte prima di ogni battaglia mi è sempre apparso in sogno un santo individuo che mi esortava alla vittoria e nel cui merito ho conquistato mezzo mondo. Fino ad oggi non sapevo chi fosse, ma ora lo so: Shimon Ha-Zaddik!”. Gli storici greci non riportano ovviamente questo incidente, perchè non lo vogliono ammettere. L’episodio viene invece descritto dal Talmud (Yoma).
Ma vi è una radice ancora precedente. Duemila anni prima anzichè l’incontro vi è il confronto tra due individui. Noach (Noè) scende dall’arca dopo il diluvio. Pianta un vigneto, produce del vino e ubriacatosi si addormenta in uno stato “sconveniente”. Allertati dal fratello Cam che nota l’incidente, Shem e Yafet entrano assieme nella tenda camminando all’indietro per non vedere la nudità del padre e lo coprono con una coperta. Il verso utilizza sorprendentemente il singolare anzichè il plurale: “E prese Shem e Yefet una coperta...” (Bereshit 9,23). Rashi spiega che la Torà vuole evidenziare ciò che ha fatto Shem, progenitore degli ebrei, rispetto a quanto ha fatto Yefet, progenitore dei greci. L’atto apparentemente identico e simultaneo dei due fratelli ha quindi una connotazione completamente diversa: Shem ha considerato la propria azione come una mizvà e Yefet no. Ma qual’è la differenza? In fin dei conti entrambi hanno compiuto una buona e corretta azione. Rashi spiega che il “pagamento” di questo atto avverrà molti anni dopo: per aver coperto il padre, i discendenti di Shem saranno benedetti con la mizvà di coprire il proprio corpo con il talet e zizit, mentre i discendenti di Yafet meriteranno di coprire i propri corpi con una degna sepoltura. Vi è quindi qualcosa in Shem che non c’è in Yefet. Ma cosa?
Vi è una radice ancora precedente. Mille anni prima, il primo giorno della Creazione: “D-o disse: sia luce, e luce fu” (Bereshit 1,3). Il sole e gli astri furono creati solo il quarto giorno. Come può esserci luce senza sole? La risposta è che esistono due fonti di luce, una creata il primo giorno e l’altra il quarto. La prima è l’essenza degli ebrei, mentre la seconda è l’essenza dei greci. E questa differenza caratterizza il confronto tra Shem e Yefet, l’incontro tra Shimon Ha-Zadik e Alessandro Magno e lo scontro tra l’esercito ebraico e quello greco durante la storia di Chanukà. Proviamo a capire.
Entrambe le luci sono caratterizzate da bellezza. Conosciamo bene il concetto greco di estetica, ma cosa ne pensa l’ebraismo? Venerdì sera, al tavolo di Shabat cantiamo Eshet Chail (la donna di valore). E diciamo: “La bellezza è falsità e vanità, ma una donna che teme D-o è virtuosa”. Sembrerebbe quindi che per l’ebraismo la bellezza non abbia valore. Ma non è così. Anche noi siamo preoccupati della bellezza. Sara Imenu e Rachel Imenu vengono descritte come “di bella apparenza”. Non certo un insulto, ma una virtù. Così come vengono definiti di bell’aspetto Yosef Ha-Zaddik (Giuseppe), Shaul Ha-Melech (Saul), David Ha-Melech e altri personaggi biblici.
Nell’alachà esiste addirittura una berachà (benedizione) da pronunciare quando si vede una persona di estrema bellezza. Rambam (Maimonide) aggiunge che attraverso la contemplazione della bellezza della natura si giunge a comprendere la grandezza del Creatore. Anche noi quindi apprezziamo la bellezza. Ma come si spiega il verso di Eshet Chail?
Esiste la bellezza come la vede la Torà e come la vede il resto del mondo. La parola ebraica per volto, Panim, è scritta allo stesso modo di quella per interiorità, P’nim. Esiste quindi una stretta relazione tre i due aspetti. Ed è proprio questa la differenza tra il concetto di bellezza greco e quello ebraico. Se la bellezza è esclusivamente esteriore, per noi non è bellezza. Ma se la bellezza esteriore riflette la bellezza interiore di una persona “che teme D-o”, questa sì che è vera bellezza.
Gli esempi abbondano: venerdì sera prepariamo due challot (pani), che rappresentano una bellissima idea e sono di bell’apparenza. La sinagoga deve essere bella, perchè le preghiere sono belle. Chiameremmo bella una sinagoga in cui si chiacchiera anzichè pregare? No. O un bellissimo tavolo di Shabat in cui non si parla di Torà e non si cantano zemirot? No. Shlomo Ha-Melech (Re Salomone), l’uomo più saggio della storia, descrive questa aberrazione come “un gioiello sul naso del chazir” (Proverbi 11,22). Non solo il chazir diventa ridicolo, ma anche il gioiello stesso perde il suo valore.
La luce del sole permette solo di illuminare la superficie, ma non può penetrare. È una luce superficiale che permette la visione. Ma esiste un’altra luce, non naturale ma supernaturale, che permette di vedere al di là della superficie. Ovvero permette di comprendere che il mondo ha significato e direzione.Trattandosi di una luce preziosa che molti individui in futuro non meriteranno, D-o decise di ultizzarla solo per il primo Shabat della Creazione per poi ritirarla e nasconderla. Ma tra la creazione dell’uomo, avvenuta il sesto giorno, e Shabbat avviene un altro fatto. D-o presenta tutti gli animali davanti a Adam Ha-Rishon, il quale, con l’aiuto della luce interiore, dà il nome ad ogni specie. Ma perchè è così speciale dare il nome agli animali? Il nome ebraico di ogni animale descrive esattamente la natura dell’animale stesso. E Adam Ha-Rishon, fornito di questa luce particolare, la comprese.
Tornando a Shem e Yefet, entrambi capirono che il corpo umano è speciale e degno del massimo rispetto. Ed entrambi compresero la necessità di coprirlo. Shem (che significa proprio nome, ovvero essenza) comprese che la bellezza del corpo umano è Zelem Elokim, immagine e somiglianza del Creatore. Ovvero la neshamà (anima) che è l’intrinseca bellezza. Yefet voleva invece solo preservare l’estetica del corpo del padre, ma non si preoccupava dell’anima. La radice della parola Yefet è infatti “Yofi”, bellezza esteriore. Ma come comprendiamo il nesso tra l’azione e il premio menzionato da Rashi? Osserviamo la mizvà di zizit, che originalmente comprendeva il techelet, il filo azzurro: guardandolo ci ricorda il mare, pensando al mare ci viene in mente il Cielo e soffermandoci sul Cielo fissiamo la nostra attenzione sul Kissè Ha-Kavod (il Trono Celeste). Ovvero la comprensione dell’essenza dell’oggetto al di là della mera fisicità. Yefet era solo interessato alla bellezza del corpo e non all’anima. E cosa si fa con un corpo senz’anima? Lo si sepellisce.
Possiamo così comprendere l’incontro tra Shimon Ha-Zaddik e Alessandro Magno. Mentre al momento della Creazione i vestiti vengono descritti come necessità per coprire la nudità che provoca vergogna, vi è un’unica parashà in cui vengono descritti in modo positivo: i vesiti del Cohen Gadol. Ramban (Nachmanide) dice che il Cohen Gadol è una persona che compie una funzione bellissima e quindi ha bisogno di un bellissimo vestito. Ed è questo il messaggio che Shimon Ha-Zadik trasmise ad Alessandro Magno. Quando questi vide la bellezza accompagnata da santità, si inchinò perchè comprese la superiorità della bellezza ebraica. E comprese che il ruolo della Grecia è solo quello di dimostrare che esiste una bellezza ancora superiore.
Gli ebrei sono i portatori della luce del primo giorno accompagnata dalla luce del quarto. Ma cos’è la luce del primo giorno? Rashi spiega che non solo sarà apprezzata dai Zadikim del Mondo a Venire, ma esiste anche in questo Mondo, nella Torà. Chi s’impegna nello studio e nell’osservanza della Torà con dedizione e profondità è in grado di vedere il Mondo con la prospettiva corretta.
La radice di Torà è infatti Luce. Ed è questa la battaglia di Chanukà che caratterizza il Mondo dalla sua Creazione fino ad oggi. Lo conferma il fatto che la somma delle candele di Chanukà è 36, che non solo corrisponde ai 36 trattati del Talmud, ma corrisponde anche al numero di ore che Adam Ha-Rishon visse prima che questa luce venisse ritirata.
La battaglia è attuale oggi come nel passato.
Con l’augurio che le luci di Chanukà permettano di fare chiarezza nelle nostre vite ricordandoci qual’è il nostro autentico ruolo di ebrei, illuminando così l’oscurità che ci circonda.
Michele Cogoi
Tratto da un discorso di Rav Todros Miller, Gateshead, Inghilterra
Pubblicato su: JewishLife, Jarchon
Qual’è il significato di Channukà?
Oltre duemila anni fa il mondo intero considerava la civiltà greca come la suprema cultura cui l’umanità potesse ambire. Tutti tranne il popolo d’Israele che riteneva di essere il portatore di una cultura ancora superiore. Il verso descrive infatti l’elezione del popolo ebraico: “E D-o farà di voi il popolo più elevato tra le genti della terra” (Devarim 26,19). La parola “elyon” (superiore, elevato) si può anche pronunciare “al yavan”, ovvero anche “superiore alla Grecia”.
La cosa evidentemente non piaque ai greci al punto che, caso unico tra tutti i popoli conquistati, anzichè incorporarli nel proprio pantheon culturale, decisero di distruggere la nostra religione. I decreti che emanarono furono disegnati con lo specifico scopo, non di annientarci fisicamente, ma di minare le fondamenta dell’ebraismo: l’osservanza dello Shabat e delle feste, la purezza familiare, il brit milà (circoncisione) e lo studio della Torà.
L’epilogo, doppiamente miracoloso, è noto. L’esiguo esercito ebraico formato da un manipolo di studiosi della Torà improvvisatisi militari si ribella e sconfigge la gremita ed organizzata schiera di soldati professionisti dell’impero greco. I cohanim (sacerdoti) entrano nel Tempio e trovano un ampolla d’olio non contaminato sufficiente per accendere la menorà (candelabro) per un solo giorno. Miracolosamente i lumi rimangono accesi per otto giorni.
Ma la storia di Chanukà inizia, in un microcosmo, cent’anni prima. Non come scontro tra due nazioni, ma come incontro tra due individui. Alessandro Magno, allievo di Aristotele, è il “capostipite” della futura potenza greca. Nella sua campagna militare si stava recando a Gerusalemme quando alcuni ebrei ellenizzati lo raggiunsero per descrivere il Tempio di Gerusalemme come un covo di reazionari. Alessandro Magno vi credette e decise di raderlo al suolo. Shimon Ha-Zaddik, il Cohen Gadol (Sommo Sacerdote) e leader degli ebrei decise di incontrarlo per cercare di placarlo. All’uscita di Gerusalemme, appena Alessandro vide Shimon Ha-Zaddik vestito con l’abito sacerdotale, compì un atto che mai aveva compiuto e mai più avrebbe ripetuto nella sua vita.
Scese dal suo carro imperiale e davanti agli occhi sbigottiti sia dei greci che degli ebrei s’inginocchiò ai piedi del Cohen Gadol. “Perchè un imperatore come te s’inginocchia davanti ad un semplice ebreo?” chiesero i suoi soldati. “La notte prima di ogni battaglia mi è sempre apparso in sogno un santo individuo che mi esortava alla vittoria e nel cui merito ho conquistato mezzo mondo. Fino ad oggi non sapevo chi fosse, ma ora lo so: Shimon Ha-Zaddik!”. Gli storici greci non riportano ovviamente questo incidente, perchè non lo vogliono ammettere. L’episodio viene invece descritto dal Talmud (Yoma).
Ma vi è una radice ancora precedente. Duemila anni prima anzichè l’incontro vi è il confronto tra due individui. Noach (Noè) scende dall’arca dopo il diluvio. Pianta un vigneto, produce del vino e ubriacatosi si addormenta in uno stato “sconveniente”. Allertati dal fratello Cam che nota l’incidente, Shem e Yafet entrano assieme nella tenda camminando all’indietro per non vedere la nudità del padre e lo coprono con una coperta. Il verso utilizza sorprendentemente il singolare anzichè il plurale: “E prese Shem e Yefet una coperta...” (Bereshit 9,23). Rashi spiega che la Torà vuole evidenziare ciò che ha fatto Shem, progenitore degli ebrei, rispetto a quanto ha fatto Yefet, progenitore dei greci. L’atto apparentemente identico e simultaneo dei due fratelli ha quindi una connotazione completamente diversa: Shem ha considerato la propria azione come una mizvà e Yefet no. Ma qual’è la differenza? In fin dei conti entrambi hanno compiuto una buona e corretta azione. Rashi spiega che il “pagamento” di questo atto avverrà molti anni dopo: per aver coperto il padre, i discendenti di Shem saranno benedetti con la mizvà di coprire il proprio corpo con il talet e zizit, mentre i discendenti di Yafet meriteranno di coprire i propri corpi con una degna sepoltura. Vi è quindi qualcosa in Shem che non c’è in Yefet. Ma cosa?
Vi è una radice ancora precedente. Mille anni prima, il primo giorno della Creazione: “D-o disse: sia luce, e luce fu” (Bereshit 1,3). Il sole e gli astri furono creati solo il quarto giorno. Come può esserci luce senza sole? La risposta è che esistono due fonti di luce, una creata il primo giorno e l’altra il quarto. La prima è l’essenza degli ebrei, mentre la seconda è l’essenza dei greci. E questa differenza caratterizza il confronto tra Shem e Yefet, l’incontro tra Shimon Ha-Zadik e Alessandro Magno e lo scontro tra l’esercito ebraico e quello greco durante la storia di Chanukà. Proviamo a capire.
Entrambe le luci sono caratterizzate da bellezza. Conosciamo bene il concetto greco di estetica, ma cosa ne pensa l’ebraismo? Venerdì sera, al tavolo di Shabat cantiamo Eshet Chail (la donna di valore). E diciamo: “La bellezza è falsità e vanità, ma una donna che teme D-o è virtuosa”. Sembrerebbe quindi che per l’ebraismo la bellezza non abbia valore. Ma non è così. Anche noi siamo preoccupati della bellezza. Sara Imenu e Rachel Imenu vengono descritte come “di bella apparenza”. Non certo un insulto, ma una virtù. Così come vengono definiti di bell’aspetto Yosef Ha-Zaddik (Giuseppe), Shaul Ha-Melech (Saul), David Ha-Melech e altri personaggi biblici.
Nell’alachà esiste addirittura una berachà (benedizione) da pronunciare quando si vede una persona di estrema bellezza. Rambam (Maimonide) aggiunge che attraverso la contemplazione della bellezza della natura si giunge a comprendere la grandezza del Creatore. Anche noi quindi apprezziamo la bellezza. Ma come si spiega il verso di Eshet Chail?
Esiste la bellezza come la vede la Torà e come la vede il resto del mondo. La parola ebraica per volto, Panim, è scritta allo stesso modo di quella per interiorità, P’nim. Esiste quindi una stretta relazione tre i due aspetti. Ed è proprio questa la differenza tra il concetto di bellezza greco e quello ebraico. Se la bellezza è esclusivamente esteriore, per noi non è bellezza. Ma se la bellezza esteriore riflette la bellezza interiore di una persona “che teme D-o”, questa sì che è vera bellezza.
Gli esempi abbondano: venerdì sera prepariamo due challot (pani), che rappresentano una bellissima idea e sono di bell’apparenza. La sinagoga deve essere bella, perchè le preghiere sono belle. Chiameremmo bella una sinagoga in cui si chiacchiera anzichè pregare? No. O un bellissimo tavolo di Shabat in cui non si parla di Torà e non si cantano zemirot? No. Shlomo Ha-Melech (Re Salomone), l’uomo più saggio della storia, descrive questa aberrazione come “un gioiello sul naso del chazir” (Proverbi 11,22). Non solo il chazir diventa ridicolo, ma anche il gioiello stesso perde il suo valore.
La luce del sole permette solo di illuminare la superficie, ma non può penetrare. È una luce superficiale che permette la visione. Ma esiste un’altra luce, non naturale ma supernaturale, che permette di vedere al di là della superficie. Ovvero permette di comprendere che il mondo ha significato e direzione.Trattandosi di una luce preziosa che molti individui in futuro non meriteranno, D-o decise di ultizzarla solo per il primo Shabat della Creazione per poi ritirarla e nasconderla. Ma tra la creazione dell’uomo, avvenuta il sesto giorno, e Shabbat avviene un altro fatto. D-o presenta tutti gli animali davanti a Adam Ha-Rishon, il quale, con l’aiuto della luce interiore, dà il nome ad ogni specie. Ma perchè è così speciale dare il nome agli animali? Il nome ebraico di ogni animale descrive esattamente la natura dell’animale stesso. E Adam Ha-Rishon, fornito di questa luce particolare, la comprese.
Tornando a Shem e Yefet, entrambi capirono che il corpo umano è speciale e degno del massimo rispetto. Ed entrambi compresero la necessità di coprirlo. Shem (che significa proprio nome, ovvero essenza) comprese che la bellezza del corpo umano è Zelem Elokim, immagine e somiglianza del Creatore. Ovvero la neshamà (anima) che è l’intrinseca bellezza. Yefet voleva invece solo preservare l’estetica del corpo del padre, ma non si preoccupava dell’anima. La radice della parola Yefet è infatti “Yofi”, bellezza esteriore. Ma come comprendiamo il nesso tra l’azione e il premio menzionato da Rashi? Osserviamo la mizvà di zizit, che originalmente comprendeva il techelet, il filo azzurro: guardandolo ci ricorda il mare, pensando al mare ci viene in mente il Cielo e soffermandoci sul Cielo fissiamo la nostra attenzione sul Kissè Ha-Kavod (il Trono Celeste). Ovvero la comprensione dell’essenza dell’oggetto al di là della mera fisicità. Yefet era solo interessato alla bellezza del corpo e non all’anima. E cosa si fa con un corpo senz’anima? Lo si sepellisce.
Possiamo così comprendere l’incontro tra Shimon Ha-Zaddik e Alessandro Magno. Mentre al momento della Creazione i vestiti vengono descritti come necessità per coprire la nudità che provoca vergogna, vi è un’unica parashà in cui vengono descritti in modo positivo: i vesiti del Cohen Gadol. Ramban (Nachmanide) dice che il Cohen Gadol è una persona che compie una funzione bellissima e quindi ha bisogno di un bellissimo vestito. Ed è questo il messaggio che Shimon Ha-Zadik trasmise ad Alessandro Magno. Quando questi vide la bellezza accompagnata da santità, si inchinò perchè comprese la superiorità della bellezza ebraica. E comprese che il ruolo della Grecia è solo quello di dimostrare che esiste una bellezza ancora superiore.
Gli ebrei sono i portatori della luce del primo giorno accompagnata dalla luce del quarto. Ma cos’è la luce del primo giorno? Rashi spiega che non solo sarà apprezzata dai Zadikim del Mondo a Venire, ma esiste anche in questo Mondo, nella Torà. Chi s’impegna nello studio e nell’osservanza della Torà con dedizione e profondità è in grado di vedere il Mondo con la prospettiva corretta.
La radice di Torà è infatti Luce. Ed è questa la battaglia di Chanukà che caratterizza il Mondo dalla sua Creazione fino ad oggi. Lo conferma il fatto che la somma delle candele di Chanukà è 36, che non solo corrisponde ai 36 trattati del Talmud, ma corrisponde anche al numero di ore che Adam Ha-Rishon visse prima che questa luce venisse ritirata.
La battaglia è attuale oggi come nel passato.
Con l’augurio che le luci di Chanukà permettano di fare chiarezza nelle nostre vite ricordandoci qual’è il nostro autentico ruolo di ebrei, illuminando così l’oscurità che ci circonda.
Michele Cogoi
Tratto da un discorso di Rav Todros Miller, Gateshead, Inghilterra
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