mercoledì 19 giugno 2013

KASHER, COSTI E FLESSIBILITÀ

In un articolo sull'edizione di giugno di Shalom, pubblicato su Kolot, dal titolo "Mangiare kasher non può essere un lusso", Pierpaolo Pinhas Punturello solleva il problema, per altro condivisibile, del costo elevato del cibo kasher in Italia.

L'autore osserva giustamente che non è corretto prendersela col commerciante “capitalista”. La soluzione consisterebbe invece nel sostituire i prodotti con certificazione kasher venduti nei negozi comunitari con prodotti “permessi” venduti al supermercato.

Per far ciò l'autore suggerisce, in modo per lo meno ambiguo, la necessità di essere flessibili con l'halachà poggiandosi su “facilitazioni anche internazionali” per abbassare i prezzi. E si chiede se per far tutto ciò sia accettabile incorrere in “rischi di legittimità per la nostra rabbanut d’Italia”.

A supporto della sua tesi l’autore porta l’esempio del bet din di Boston che nel 1974 ha proibito l’acquisto di uva ottenuta attraverso lo sfruttamento di lavoratori messicani per la produzione di vino kasher.

In questo modo il bet din di Boston “ha accolto l’idea che la kashrut di una produzione di vino passasse anche per elementi non tecnicamente legati al vino stesso”. Da qui il salto logico secondo il quale “in un momento così critico per la dignitosa sopravvivenza di molte famiglie ebraiche italiane sarebbe giusto halachicamente ampliare gli orizzonti dell’acquisto kasher.”

Fin qui la sintesi dell’articolo. Ecco le obiezioni.

L'esempio di Boston non è assolutamente un precedente

Senza dubbio il bet din di Boston ha ampliato gli orizzonti della valutazione di quello che è considerato kasher, includendo anche elementi non strettamente collegati alla kashrut del vino.

Il bet din in questione ha portato però alla luce trasgressioni halachiche ben definite (oppressione del lavoratore) durante il processo di produzione del vino, le quali sono anche delle violazioni della legge statunitense. E non motivazioni economiche della comunità ebraica.

L'aspetto più rilevante è però che il bet din di Boston non ha utilizzato tali aspetti (non strettamente collegati al vino) per permettere il vino, ma per proibirlo! E l'impatto atteso di tale decisione è l'aumento e non la riduzione dei costi di produzione del vino. Non si tratta quindi di un esempio di facilitazione dell'halachà per motivi economico-sociali. Semmai il contrario.

Mi pare quindi estremamente scorretto portare questo esempio a supporto della necessità di operare “facilitazioni extra-halachiche” nell’applicazione dell’halachà.

L'halachà è già di per sé sensibile alle questioni economiche

Chi è a conoscenza del processo halachico sa benissimo che le considerazioni di tipo economico, specialmente se pesano sulla collettività, sono già parte integrante del processo di decisione dell’halachà.

Un esempio, ma ve ne sono tantissimi altri, è quello della definizione di carne kasher da parte del Remà (la massima autorità halachica nel mondo ashkenazita) in cui vengono rilassati alcuni requisiti rispetto alla carne glatt kosher (ovvero kasher senza "facilitazioni") proprio per permettere il consumo di carne bovina in periodi ben più problematici dal punto di vista economico (il medioevo) di quelli attuali.

Inoltre l'halachà non è solo una questione di perdere o meno la "reputazione" internazionale o di decisione democratica degli iscritti, ma piuttosto di rispetto o meno delle norme della Torà. Chiedere ulteriori “facilitazioni” consiste non nell’applicazione facilitante dell’halachà quanto nell’uscita dall’ambito dell’halachà stessa. E quello che rende ancora più perplessi è il fatto che a proporre tale strada sia qualcuno che precede il proprio nome con la parola rav.

In altre parole trattandosi di un problema halachico (tra l’altro non nuovo), se la domanda è "quali facilitazioni vi possano essere in caso di difficoltà economiche diffuse", essa va posta ad un serio posseq halachà (decisore halachico).

Non si possono ridurre i costi senza fare compromessi sulla kashrut?

Al di là di quanto detto, chi scrive si chiede: è sicuro l'autore che l'unica strada da battere sia la classica via italiana (anche questa non nuova) di fare compromessi sull'halachà per risolvere i problemi (nel nostro caso la riduzione dei costi)?

In particolare in un paese come l’Italia che esporta cibo (non kasher, ma anche kasher) in tutto il mondo, non è forse il caso di cercare soluzioni che riducano il costo dei prodotti kasher senza fare compromessi (ulteriori a quelli già previsti) sulla definizione di cosa sia kasher?

All’estero prodotti di ogni genere con certificazione rabbinica sono reperibili a costo relativamente moderato. E dato che la crisi economica non è un problema esclusivamente italiano, credo che gli esempi internazionali un po’ più costruttivi di quello presentato non manchino.

Cordialmente

Michele Cogoi

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