venerdì 12 maggio 2006

UN EBREO ITALIANO FUORI DALLA NORMA

A 25 anni dalla scomparsa, la figura e le idee di Alfonso Pacifici, un ebreo italiano tanto straordinario quanto poco noto, rimangono attualissime. Pur fermamente convinto che il vero sionista è chi coniuga l'amore per Erez Israel con l'osservanza delle mizvot, fu sempre contrario alle divisioni all'interno del popolo ebraico. Una lettura particolarmente adatta tra Yom Hazmaut e Shavuot.

Pubblicato su: Jarchon, JewishLife

Alfonso Pacifici fu un grand’uomo. Guardando una sua vecchia fotografia si nota lo sguardo determinato di un uomo assorto in una visione lontana, con il portamento appagato di chi ha già raggiunto la meta desiderata.

Dall’apertura dei ghetti all’inizio dell’ottocento l’Italia è stata benevola nei confronti degli ebrei, i quali, con il fiorire delle opportunità raggiunsero ben presto posizioni di presitigio sociale. Sedotti dall’ambiente circostante portarono a compimento la predizione della Torà “Yeshurun (Israele) divenne pingue e si ribellò” (Devarim 32:15). In altri termini al crescere del benessere materiale corrispose una diminuzione dell’osservanza delle mizvot. Le stupende sinagoghe si svuotarono per accogliere i membri della comunità solo durante i Yamim Tovim e qualche raro Shabbat. E in un processo apparentemente inevitabile ed irreversibile, in pochi anni giunsero assimilazione, matrimoni misti e apostasia.

La famiglia Pacifici visse a Firenze. Colti e benestanti, mantennero alcuni accenni di osservanza anche se la conoscenza dei tesori dell’ebraismo era oramai povera. Da questa famiglia nacque nel 1889 Yehuda Menachem, conosciuto ai più come Alfonso. Ricevette la migliore educazione moderna e fu attratto dalla cultura italiana. Pur non avendo compagni di classe ebrei si astenne sempre dallo scrivere a Shabbat. Ma il suo ebraismo non lo separava per nulla dai suoi coetanei in un mondo in cui l’ascesa sociale era legata unicamente all’eccellenza accademica. Il giorno del suo bar mizvà ricevette un paio di tefillin che, a differenza di molti suoi correligionari, mise ogni giorno per il resto della sua vita. Ma com’egli stesso disse “era un rituale meccanico di cui non capivo il significato”.

“I miei studi classici” scrisse molti anni dopo “furono un ostacolo al mio ritorno all’ebraismo. Non solo portarono via i miei migliori anni, ma riempirono la mia testa di nozioni estranee che fu molto difficile rimuovere e di cui forse non mi sono mai completamente liberato. Ma allo stesso tempo furono la mia salvezza, perchè se avessi studiato economia o altre materie pratiche non avrei mai compreso il concetto di studio fine a se stesso e invece di aspirare al mondo delle idee e della filosofia mi sarei accontentato di mete molto più limitate”.

Il giovane Alfonso accompagnò un giorno il padre ad una riunione Sionista a Firenze. Al ritorno a casa annotò le sue impressioni: “I Sionisti sbagliano se credono che gli ebrei debbano diventare una nazione come tutte le altre. Il popolo ebraico è unico!”. Rileggendo queste parole anni dopo commentò: “Ignorante com’ero non so come giunsi a queste conclusioni. In ogni modo, si trattò di un inizio e queste parole rimasero sepolte dentro di me finchè non giunse l’ora di riportarle alla luce.”

Nel 1890, un giovane rabbino galiziano, Rav Shmuel Zvi Margolis, venne chiamato a servire come rav della comunità di Firenze. Non fu facile per una rabbino polacco venir accettato ed amato da una comunità culturalmente così diversa. Alfonso fu attratto dal rav e assieme a due coetanei cominciò a partecipare ai suoi shiurim settimanali. Il messaggio principale del rav era che l’ebraismo è una Torà di vita; non una fredda collezione di rituali, ma una fede dinamica che accompagna l’ebreo durante la sua giornata e la sua vita. E fu così che il giovane Alfonso intraprese il suo percorso di crescita intellettuale e spirituale; e lentamente iniziò un profondo impegno all’osservanza delle mizvot.

All’età di ventun anni, nonostante la sua ancora scarsa preparazione ebraica, Alfonso sentiva bruciare così tanto dentro di sè la passione per l’ebraismo che scrisse un saggio intitolato “Una lettera agli amici” in cui protestava l’abbandono dei valori ebraici e richiamava i suoi correligionari a ritornare alla propria religione. Pur continuando i suoi studi universitari, studiò a fondo la lingua e grammatica ebraica.

Durante un Seder di Pesach un acceso dibattito prese corpo tra lui e una zia. Alfonso chiese di leggere l’Aggadà con profonda attenzione. La cosa non piaque alla zia, la quale, in seguito all’insistenza del giovane, sbottò: “se continui così diventerai un rabbino!”; cui egli rispose: “se continui così un giorno non sarai più ebrea!”. Rabbino non diventò, ma la zia si convertì al cristianesimo divenendo persino suora. E così scomparve un intero ramo della sua famiglia paterna.

Il giovane Pacifici andò a studiare legge all’università di Pisa dove si laureò con lode. La sua tesi di laurea s’intitolava “Profezia: la forza vitale della Legge di Mosè” in cui dimostrò la natura eterna delle Leggi della Torà. Il giorno successivo alla laurea apprese il divieto di radersi con una lama e decise quindi di farsi crescere la barba. Dopo alcuni anni di apprendistato divenne magistrato, ma superando numerose difficoltà riuscì a mantenere l’osservanza di Shabbat e kash'rut.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale venne arruolato nell’esercito come ufficiale. Nonostante la sua ancor scarsa preparazione ebraica, si impegnò a garantire il rispetto delle necessità religiose dei soldati ebrei; e creò persino l’istutizione del capellano militare. Venne nominato rabbino militare e aggiunse alla sua divisa un Magen David fatto con le sue mani. Quando migliaia di soldati ebrei dell’esercito Austro-Ungarico vennero fatti prigionieri, il rabbinato militare si occupò delle loro necessità religiose.

La prima moglie morì ancora ventenne lasciandogli una figlia. Si risposò due anni dopo con Marcella De Benedetti. A questo punto della sua vita l’ebraismo era già ben radicato in lui così come l’impegno a trasmetterlo ai suoi figli. Ad una conferenza che tenne a Parigi, in cui per spiegare il significato dell’osservanza religiosa enfatizzò il concetto di noblesse oblige, narrò di quando passeggiando a Shabbat sua figlia gli chiese: “Come mai è permesso a tutta questa gente di viaggiare a Shabbat e a noi no?”. Dopo averci pensato un attimo la bambina rispose a se stessa: “Ah, lo so! È perchè siamo Am Israel!”.

Con la dichiarazione Balfour del 1917 e la fine della Guerra, il sogno Sionista riprese corpo e si diffuse a macchia d’olio in Europa. Pacifici era a quel tempo un ardente Sionista ed ebbe occasione di conoscere bene i leader del movimento che vennero in Italia: Weitzman, Sokolov e Ussishkin. Ma la sua irriducibile ricerca della verità lo indusse ad analizzare ogni cosa con profonda serietà.

Giunse così a comprendere la vera natura del movimento Sionista e fu profondamente amareggiato dall’enfasi data al nazionalismo e la creazione dello Stato come valori assoluti, mentre i valori millenari dell’ebraismo venivano messi in secondo piano. Turbato dall’assenza della benchè minima osservanza della Torà da parte degli shelichim provenienti da Erez Israel, ebbe con loro forti discussioni su quale fosse il vero significato del Sionismo e dell’identità ebraica. Tra questi ci fu anche Enzo Sereni uno dei fondatori del Kibbuz Givat Brenner, il quale inizialmente aveva intrapreso assieme a Pacifici la strada del ritorno all’osservanza per poi abbandonarla sotto l’influenza dei compagni del kibbuz.

Al Congresso Sionista di Basilea che si tenne prima della Seconda Guerra, il pubblico era estasiato dagli oratori. Non Pacifici, che si torse nervosamente sulla sua sedia finchè decise di chiedere la parola. La sua presenza fisica imponente fece ammutolire il pubblico che ascoltò l’unica frase che disse: “Voglio solo menzionare il nome di Hashem (D-o) in questo congresso, perchè per qualche ragione tutti gli altri oratori se ne sono dimenticati”. Siccome diversi membri si levarono opponendosi al fatto che D-o avesse la ben che minima collocazione all’interno del Congresso Sionista, Pacifici volle esprimere chiaramente la sua posizione a riguardo: davanti agli occhi sbigottiti del pubblico strappò la propria tessera di appartenenza.

Pacifici era fermamente convinto che il vero Sionista fosse una persona che coniuga l’amore per Erez Israel con l’osservanza di tutte le altre mizvot. Si dedicò quindi a portare avanti questo ideale che trasmise a numerosi giovani italiani i quali si riavvicinarono poco a poco all’autentico ebraismo. Molti dei suoi seguaci divennero personalità di spicco in Israele: Gad Ben-Ami, Yehuda Elizur e Meir Padua. Una delle attività di cui si occupò fu l’organizzazione di campeggi per giovani ebrei in cui insegnare le basi dell’ebraismo e prevenire i matrimoni misti. Egli fu anche uno dei fondatori del settimanale Israel, il primo giornale ebraico nazionale che aveva l’obiettivo di promuovere la riacculturazione del mondo ebraico italiano.

Alcuni oppositiori di Pacifici lo accusarono di fare propaganda antifascista. A seguito delle pressioni del Capo della Polizia di Firenze, Pacifici acconsentì ad interrompere la stampa delle sue idee ad un’unica condizione: che gli venisse data l’opportunità di spiegare le proprie idee niente meno che a Mussolini. Venne accolto dal Segretario di Stato e Vice Ministro dell’Educazione (il Ministero era detenuto da Mussolini stesso). In un brillante discorso riuscì a convincere i suoi interlocutori che la sua ideologia non era diversa da quella fascista: allo stesso modo in cui il Duce cercava di far rivivere i fasti di Roma, gli ebrei volevano ristabilire la gloria di Gerusalemme. Gli ebrei italiani non avevano quindi alcuna intenzione di interferire nelle faccende del governo del paese che gli ospitava. Non solo Mussolini autorizzò che la rivista continuasse ad essere pubblicata, ma ne divenne anche un avido lettore.

Pacifici compose “I Discorsi sullo Shemà” pubblicati sulla rivista Israel e raccolti in seguito in un libro che assieme ad altri libri scritti in ebraico e tradotti in italiano, ebbe una notevole influenza sulla comunità italiana.

Durante una serie di conferenze in Europa enne invitato a tenere una conferenza alla Yeshivà Ez Haim di Montreaux in Svizzera. Vi rimase per due mesi! Il primo assaggio del mondo della Torà che non aveva mai potuto gustare prima, rafforzò la sua convinzione di doversi trasferire in Israele per essere più vicino alle yeshivot e ai grandi saggi della generazione, ambiente che ritenne ideale per la crescita dei suoi figli.

Nel 1934, nonostante il parere contrario degli amici che lo ritenevano folle ad abbandonare la sua comoda casa, una situazione finanziaria più che agiata e un ottimo status sociale, decise di portare a compimento il suo sogno. E nonostante il Capo della Polizia di Firenze avesse creduto di essersi liberato finalmente di lui, una volta stabilitosi a Gerusalemme continuò a pubblicare i suoi articoli sulla rivista Israel.

La sua casa divenne il centro di ritrovo degli italiani che come lui avevano fatto l’alià. Ma non solo. Dotato dei mezzi finanziari necessari, si dedicò ad aiutare i suoi nuovi concittadini e a finanziare l’apertura di diverse istituzioni educative. Nonostante l’ingente patrimonio, la sua famiglia visse sempre modestamente. Cosicchè non fu difficile adattarsi una volta che, per le innumerevoli attività filantropiche intraprese, finì i soldi. “Questa esperienza mi insegnò ad essere felice con il poco che avevo; allo stesso tempo sviluppai il mio sentimento di fratellanza, senza traccia d’invidia nei confronti di chi aveva più di noi”. Fermo nelle sue convinzioni ma allo stesso tempo contrario alle divisioni all’interno del popolo ebraico, mantenne sempre amicizie molto variegate.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, fece brevemente ritorno in Euopa per poter aiutare i reduci dei campi e dare sostegno ai giovani.

Nel 1957 venne invitato dal futuro Presidente dello Stato d’Israele Zalman Shazar a parlare ad un congresso dell’Agenzia Ebraica. Dopo un’iniziale titubanza decise di cogliere l’opportunità per esprimere le sue idee sull’intrinseca distorsione del Sionismo laico. “Ora che per la terza volta nella storia la nazione d’Israele è rientrata nella sua Terra, se solo leggessimo tutti assieme con attenzione le parole dello Shemà e in particolare il paragrafo “Vehaià im shamoa” (“E se ascolterai”) avremmo forse la possibilità di evitare gli sbagli che abbiamo già commesso le volte precedenti...”. E nessuno seppe cosa rispondere neppure quando Pacifici proseguì condannando quanto compiuto nei confronti dei figli degli ebrei Yemeniti, appena giunti in Israele e costretti dallo Stato ad abbandonare la religione dei padri.

In un suo libro ristampato nel 1955 confessò: ”Non mi era mai stato detto che il mio principale bisogno ed obbligo era quello d’incominciare a studiare la Torà per poter comprendere a fondo i concetti che la mia mente aveva compreso solo superficialmente. Se l’avessi fatto prima mi sarei risparmiato un bel po’ di sofferenze”.

Nell’elogio funebre a seguito della sua dipartita nel 1981, Rav Hillel Lieberman zz’l commentò: “Pacifici ha compiuto nella sua vita due azioni, pensiero e teshuvà (ritorno), in un modo non comune”. Una via è dedicata in suo ricordo a Gerusalemme.

Michele Cogoi

Adattato da un articolo di YehuditGolan apparso su “Mishpacha” (5 Apr.’06)

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